Archivio | ottobre, 2015

A proposito dell’assoluzione di Erri De Luca

20 Ott

Secondo la gran parte dei commentatori italiani la sentenza di assoluzione di Erri De Luca rappresenta una vittoria della giustizia, il riconoscimento del diritto alla parola, l’affermazione della libertà d’espressione.

Ma, soprattutto, rappresenta una sentenza “giusta”.

Per i giudici di Torino che hanno emesso questa sentenza le parole pronunciate dallo scrittore napoletano non vanno considerate un’incitazione a commettere un reato (istigazione a delinquere).

“Il fatto non sussiste” (questa la formula utilizzata dai giudici) vuol dire che nelle parole pronunciate da De Luca non c’era alcuna istigazione a commettere un reato, e quindi non c’era alcun reato.

Secondo me, invece, ad aver vinto a Torino è, ancora una volta, l’idea che in questo Paese possa essere consentito ad alcuni (in nome di qualcosa che sarà sempre possibile trovare, come la grida favorevole che cercava affannosamente l’avvocato Azzeccagarbugli) di non rispondere delle conseguenze dei loro comportamenti.

Ad aver vinto a Torino è l’idea che ad alcuni (solo ad alcuni, alla faccia della nostra Costituzione) possa, debba, essere riconosciuto il diritto ad essere irresponsabili.

E poco importa che si arrivi anche, con arroganza, alla provocazione (significative le parole pronunciate in aula da De Luca poco prima della sentenza, sempre, sia chiaro, in nome della famosa libertà d’espressione).

Quanto poi al considerare giusta una sentenza solo se favorevole, ritengo si sia di fronte ad una vera aberrazione: una sentenza è giusta solo se afferma la verità, e questo indipendentemente dalle conseguenze che da questa possano derivare.

Il vero problema che vedo nella sentenza di Torino non è nel non aver riconosciuto reato pronunciare certe parole ma nel non considerare responsabile delle conseguenze che certe parole possono provocare chi quelle parole le pronuncia.

Ed i primi ad avvertire questo grave rischio dovrebbero essere proprio gl’intellettuali, che invece rivendicano per sé, in quanto intellettuali, il diritto ad essere irresponsabili, il diritto all’impunità (e questo in un Paese che, com’è noto, alla punizione preferisce il perdono).

Molti di questi intellettuali (spesso solo sedicenti tali) si considerano, in nome della libertà d’espressione, esenti da responsabilità, anche se le loro parole, i loro comportamenti, dovessero funzionare da innesco, anche involontario, di un’esplosione.

Chi accende un fiammifero in un ambiente saturo di gas (pur essendo consapevole della natura di quell’ambiente) compie un’azione che è ben diversa se quella stessa azione la compie per accendere un bruciatore di un fornello a gas.

L’azione è la stessa (l’accensione del fiammifero) ma le conseguenze che questa provoca, in funzione dell’ambiente nel quale avviene, sono ben diverse!

Ma, evidentemente, questo è un Paese che rifiuta le responsabilità e al quale la Storia non insegna nulla.

 

P.S. L’Italia è un Paese davvero singolare: vengono sottoposte a processo persone che lo stesso processo riconosce non aver commesso alcun reato (persone che quindi non avrebbero dovuto essere processate) mentre persone che commettono reati (vedi l’apologia di fascismo) non vengono sottoposte ad alcun processo.

A far traboccare il vaso non è l’ultima goccia ma tutte quelle che l’hanno preceduta.

11 Ott

Quello che più colpisce, dell’incredibile vicenda di Ignazio Marino, è l’ipocrisia di quanti (molti in assoluta mala fede) collegano la situazione nella quale oggi si trova la capitale d’Italia (a proposito, questo Paese non potrebbe avere capitale migliore) a quanto emerso negli ultimi mesi, soprattutto a seguito dell’inchiesta “Mafia Capitale”.

Come se i mali di cui soffre Roma fossero recenti!

“Capitale corrotta= nazione infetta” era il titolo di copertina dell’Espresso dell’11 dicembre 1955!

Mettendo a confronto la Roma di oggi con quella di sessant’anni fa si potrebbero notare alcune cose, evidenti, che solo gli ipocriti, o i fanatici, non considerano.

Ci si accorgerebbe, per esempio, dell’assoluta inutilità dell’informazione in Italia, così come delle connessioni tra classe politica, criminalità e altri poteri, dell’indifferenza della cosiddetta opinione pubblica, delle innaturali connivenze tra governo e opposizione, tutte cause che impediscono che in questo Paese ci sia una vera, seria, alternativa.

Ed è proprio in casi come quello di Marino che in tanti, per motivare le loro reazioni suscitate dal vedere superato un determinato limite, fanno ricorso al popolare detto “la goccia che fa traboccare il vaso” (in questo caso, questa famosa goccia sarebbe rappresentata dai famosi scontrini).

Al di là dell’ipocrisia dietro la quale ci si nasconde, quello che è interessante, in quest’incredibile vicenda, è vedere il meccanismo che si mette in moto in casi come questo.

Meccanismo che nasce da una grande povertà intellettuale, da un pensiero superficiale, estremamente povero, che ignora totalmente un dato elementare: quello che osserviamo oggi è determinato da quel che è accaduto prima, da ciò che si è fatto, o che non si è fatto, in passato (“oggi” non è altro che il futuro di “ieri”).

Si tende così a dare importanza solo a quello che avviene nel presente, a ragionare come se il passato non esistesse, come se il nostro presente non fosse determinato dal nostro passato, come se quel che siamo, quel che facciamo oggi, non fosse determinato da quel che abbiamo fatto prima, da quel che siamo stati prima.

Si vive schiacciati sul presente, si sta solo sulla superficie.

Un giorno, a Mougins, il proprietario di un ristorante riconobbe, seduto ad un tavolo del suo locale, Pablo Picasso (Mougins è il comune del sud della Francia nel quale Picasso trascorse gli ultimi anni della sua vita e dove morì, nel 1973).

Sorpreso di quella presenza, il proprietario del ristorante chiese all’autore di “Guernica” di lasciargli un ricordo.

Dopo poco Picasso gli consegnò un foglietto con un suo disegno.

Il proprietario del ristorante, meravigliato del poco tempo trascorso dalla sua richiesta, chiese allora a Picasso quanto tempo avesse impiegato per quel disegno.

La risposta di Picasso fu: un minuto e settant’anni.