Se c’è una parola che può essere portata ad esempio dell’uso improprio, spesso strumentale, che si fa del linguaggio, questa è la parola arabo.
Con questa parola si intende sia un popolo, sia una lingua.
Il popolo arabo prende il suo nome dalla zona geografica nella quale originariamente abitava: arabi era infatti il nome col quale venivano chiamate le popolazioni che vivevano nell’alta Mesopotamia, nella regione situata tra il Mar Morto e il golfo di Aqaba (regione chiamata Wadi Araba).
Con la rivelazione coranica, avvenuta in arabo (il Corano rappresenta il primo vero testo arabo), la parola arabo (nomade del deserto) si svincola dall’etnia araba: a partire da quel momento la parola non indica più solo le popolazioni originarie della penisola araba ma viene usata per indicare anche quelle che, pur appartenendo ad altri gruppi etnici (maghrebini, andalusi, anatolici, ecc.), parlano in arabo.
Da quel momento la lingua araba costituisce uno strumento di unificazione sociale.
Il dato importante è che, in forza della sua origine, la lingua araba, per un credente, non è soltanto una lingua semitica: è molto di più, è la parola divina, è la via attraverso la quale Allah si è rivelato.
Da qui l’importanza data alle parole, non solo al loro significato ma anche al modo col quale vengono scritte: l’attenzione data alla calligrafia è anche un modo di manifestare rispetto alla divinità.
Torniamo adesso all’uso improprio, molto frequente, di arabo, parola che si presta come poche altre ad essere usata in maniera strumentale, sia con l’intenzione di dare ad essa un valore positivo sia con l’intenzione di dargliene uno negativo.
È classico, in casi come questo, uno degli errori logici più diffusi, quello di prendere in considerazione soltanto quei fatti che confermano le proprie opinioni, tralasciando/ignorando quelli che invece le smentiscono.
E quando entrano in gioco le ideologie, che stanno alla base delle convinzioni più fortemente radicate nella testa degli esseri umani, quest’errore è pressoché inevitabile.
Com’è noto, infatti, le parole fanno emergere il pensiero che sta loro dietro/sotto (parlare male significa pensare male).
Ecco che allora, da parte di alcuni, si fanno passare per arabi scienziati che arabi non erano.
In alcuni testi, anche importanti (sic!), alcuni scienziati erroneamente indicati come arabi vengono indicati come musulmani, confondendo così musulmano con arabo (non solo si fa confusione tra “esprimersi in lingua araba” ed essere arabo ma anche tra “esprimersi in lingua araba” ed essere musulmano).
Analoga confusione (quella tra chi pratica una religione e chi parla una lingua) viene fatta anche nel campo cristiano, ad opera di chi evidentemente ignora il fatto che esistono cristiani di lingua latina, così come ne esistono di lingua greca e di lingua araba.
Ed ecco alcuni esempi, tra i più famosi, dell’errore al quale ho accennato sopra (si tratta di tre grandi scienziati persiani):
1. Ibn Sīnā (nacque nel 980 a Afshana), che sarebbe poi stato conosciuto nel mondo latino col nome di Avicenna;
2. al-Khwārizmī (nacque nella regione iraniana del Khwārizm intorno al 780);
3. al-Biruni, nato anche lui nella regione iraniana del Khwārizm, nel 973 (portano il suo nome un cratere della Luna ed un asteroide).
La confusione nasce dal fatto che quegli scienziati hanno scritto le loro opere in arabo.
Ma scrivere in una lingua non significa essere della nazione alla quale quella lingua è associata, nella quale quella lingua è nata.
Nessuno direbbe che Newton era italiano solo perché “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica” l’ha scritta in latino.
Così come nessuno direbbe che Jorge Luis Borges è spagnolo solo perché le sue opere le ha scritte in spagnolo.
Non a caso in spagnolo esiste la parola hispanohablante, che non significa spagnolo.