Archivio | febbraio, 2015

Un conto è conoscere, un altro è essere competenti.

28 Feb

Un conto è “conoscere”, avere cioè assimilato informazioni, un altro è “essere competenti”, vale a dire essere capaci di usare conoscenze per assolvere un compito.

Spesso però non si tiene conto della differenza sostanziale fra questi due concetti: l’ambito della competenza è più vasto di quello della conoscenza.

La prima comprende la seconda, non si limita ad essa; la competenza presuppone infatti anche il possesso di capacità, di abilità.

La competenza implica la conoscenza, ma non viceversa.

Si può infatti “conoscere” e allo stesso tempo non “saper fare”, mentre non si può “fare” se non si conosce.

Ovviamente, per “fare” intendo “fare bene”, a regola d’arte, non semplicemente “fare”.

La persona competente, l’artista (nel senso di “chi sa fare”, di “chi possiede il cosiddetto know-how”, di “chi conosce l’arte”) è infatti chi applica la propria conoscenza, la propria arte, nello svolgimento di un’attività (sia essa manuale o intellettuale).

Gli antichi greci, consapevoli del fatto che la teoria (il campo della conoscenza) e la pratica (il campo dell’arte) stanno su due piani diversi, usavano due parole distinte per indicare i due concetti in questione.

Per indicare il “sapere”, la “conoscenza”, usavano la parola ἐπιστήμη (epistéme), se invece volevano indicare l’abilità tecnica, il saper fare, l’arte, usavano la parola τέχνη (téchne).

Il “tecnico” (un chirurgo, un artigiano, un solutore di rebus) è chi “sa”, chi conosce le regole e sa anche “come fare”; lo scienziato è chi conosce le regole, chi sa il “perché” delle cose.

Se considero la cultura di questo Paese, caratterizzata, da una parte, da una naturale, quasi istintiva, preferenza per la teoria, per la narrazione e, dall’altra, da un’altrettanto naturale tendenza a trascurare i fatti, la realtà empirica, trovo che questa privilegi la conoscenza di regole (delle quali peraltro non viene verificata l’effettiva assimilazione) alla capacità di saperle applicare, di tradurle in azioni.

Trovo che non ci si renda conto di un fatto fondamentale (fatto che forse non si vuole accettare, per le implicazioni che ne potrebbero derivare): conoscere cosa fare per assolvere un compito (conoscere le regole) è cosa ben diversa dall’essere capaci di assolverlo in pratica.

Un conto è conoscere regole, formule, e fare affidamento solo su di esse, un altro è basare il proprio ragionamento sulla realtà, sul mondo reale, partire cioè dalla conoscenza che già si possiede della realtà e integrare in essa eventuali regole.

Il mondo reale potrebbe non adattarsi a certe regole, potrebbe non “volerle” seguire, anche se quelle regole dovessero essere state prodotte da “scienziati”.

A proposito dei recenti episodi di teppismo di Roma

22 Feb

I recenti fatti che hanno preceduto la partita Roma-Feyenoord confermano non solo lo strapotere del mondo del calcio nei confronti del resto della comunità e la rassegnazione con cui le città osservano, da ostaggi inermi, queste manifestazioni d’inciviltà, di violenza animale, ma, ancor di più, l’incapacità dello Stato italiano di difendere adeguatamente i propri cittadini, il territorio, dai pericoli, d’impedire che questi producano danni.

Dire che i fatti di Roma dipendono dall’esistenza di alcune frange di tifosi (ancora con questa buffonata di usare il termine “tifosi” per indicare quelli che sono invece dei teppisti) e non dall’incapacità, tutta italiana, d’impedire che dei delinquenti facciano quello che vogliono, è come dire, davanti al crollo, in occasione di un terremoto (avvenuto in un territorio di cui era ben nota la natura sismica), di edifici mal costruiti (per incapacità o per lucrare sul prezzo), che quei crolli dipendono dal terremoto e non invece da chi ha costruito, in quel territorio, edifici non in grado di resistere alle scosse.

L’esistenza di delinquenti (non solo nell’ambito del mondo del calcio), così come la sismicità di un territorio, sono dati di fatto e da essi non si può prescindere.

Chi lo fa mette in condizioni di grande rischio la comunità nella quale vive.

L’aspetto che però trovo più incredibile in occasioni come quella di Roma non è che non si faccia nulla per prevenire i danni causati dai pericoli ma che si imputi agli stessi pericoli, al fatto che esistano, la responsabilità di quello che inevitabilmente succede quando vengono lasciati liberi di produrre i danni collegati alla loro esistenza.

La cosa che trovo veramente assurda è che si pensi che fenomeni naturali come i terremoti, come la delinquenza, fenomeni che fanno parte del mondo reale, possano non esistere, che si possa prescindere dalla loro esistenza.

È come se, una volta preso fra le mai un vaso di vetro, si lasciasse poi la presa e, una volta che quel vaso si sia ridotto inevitabilmente in una massa di pezzi di vetro, s’imputasse poi all’esistenza della forza di gravità la responsabilità di quella rottura.

In sostanza, anziché organizzarsi per ridurre le probabilità che una situazione di pericolo possa produrre danni, ci si affida alla sorte, riponendo in essa le speranze che quel pericolo non dia vita ai danni che è in grado di produrre, oppure ai sogni, pensando ad un mondo privo di pericoli.

Tutto questo per nascondere la propria incapacità, la propria inadeguatezza.

Rivoluzione popolare? Impossibile, soprattutto se manca il popolo.

13 Feb
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Il 4 aprile 1860 è una delle date che i palermitani dovrebbero conoscere e tenere sempre a mente.
Si tratta della data che segnò l’inizio dell’ultima insurrezione contro i Borbone, insurrezione nota come “rivolta della Gancia”, dal nome del convento che fu al centro di quei fatti.
Quel 4 aprile il palermitano Francesco Riso, che capeggiò la rivolta, decise di agire, di passare all’azione comunque, anche contro il parere del comitato segreto cittadino.
Come al solito, i rivoltosi erano uniti solo dalla volontà d’insorgere, ma non dagli obiettivi da perseguire.
Alla base del parere contrario di quel comitato non c’erano però tanto le idee politiche di Francesco Riso (era un mazziniano) quanto la sua estrazione sociale (si trattava di un fontaniere).
Il timore del comitato, il motivo del sospetto col quale veniva guardato Riso non era infatti quell’iniziativa in sé, ma la possibilità che si concludesse con un successo (un’iniziativa vittoriosa guidata da un “semplice” fontaniere, era quello il rischio).
A fare paura, quel 4 aprile, era, allora come sempre, l’iniziativa popolare.
Paura però infondata, visto che anche in quell’occasione il popolo palermitano non diede segni di vita.
L’insuccesso di quella rivolta non dipese infatti soltanto dalla “soffiata” di in frate del convento della Gancia ma, soprattutto, dalla mancata sollevazione del popolo, che non si mosse, come Riso forse pensava, al suono delle campane del convento.
Quel giovane mazziniano, ignaro del contesto nel quale si muoveva, si ritrovò solo, una condizione nella quale si sono venuti a trovare altri palermitani.
Il fallimento di quell’insurrezione ricorda che in Sicilia l’iniziativa è sempre stata nelle mani dei nobili, di quei nobili che a volte amano atteggiarsi a liberali, a progressisti.
Ma, come al solito, si tratta di una semplice apparenza, di un “gioco”: questi sedicenti liberali amano più che altro “apparire” amanti del progresso,”mostrarsi” propensi alle rivoluzioni, purché queste siano governate da loro e, soprattutto, siano limitate al campo politico; temono le rivoluzioni che possano in qualche modo minacciare i loro privilegi, come quelle sociali.
Temono, in sostanza, le vere rivoluzioni.
Ma forse, alla base dei tanti fallimenti delle rivoluzioni “popolari”, a Palermo come in altre città meridionali, c’è un semplice dato, tanto semplice quanto sottovalutato, se non ignorato: la mancanza di un popolo, almeno nell’accezione corretta di tale termine (“popolo” non come generalità della popolazione ma come collettività omogenea, consapevole della propria identità, capace di organizzarsi per perseguire un fine sociale comune).
Forse tutto ciò dipende dal fatto che quello che viene comunemente chiamato “popolo” è in realtà semplice “plebe” (moltitudine sgangherata di individui, massa amorfa, facile preda dei populisti).
Non rimane che sperare che la plebe riesca ad essere popolo, a pensare come popolo.

I segni comunicano più delle parole (a proposito del discorso di Mattarella).

5 Feb

Tra la marea degli applausi (42, in soli trenta minuti!) che hanno più volte interrotto il discorso che Sergio Mattarella ha pronunciato martedì 3 febbraio nell’aula di Montecitorio in occasione del suo insediamento alla carica di Presidente della Repubblica, quello che ho trovato più incredibile, surreale, è stato quello seguito alle parole “la lotta alla Mafia e alla corruzione sono priorità assolute“.

Come definire altrimenti il fatto che, tra quella “folla plaudente”, ci fossero tanti personaggi che, pur avendone avuta la possibilità, non hanno mai fatto nulla per contrastare efficacemente, con atti concreti, con comportamenti, entrambi questi fenomeni?

E che ve ne fossero anche di quelli che li hanno pure favoriti?

Per non parlare poi di quelli la cui presenza in quell’uditorio aveva a che fare con l’esistenza stessa della Mafia (e con quella della cosiddetta “antimafia”, che della Mafia è uno dei frutti velenosi) e di quelli che hanno utilizzato la corruzione come strumento per acquisire consenso elettorale.

E che dire della presenza alla cerimonia d’insediamento di chi pubblicamente ha definito “eroe” un individuo che faceva parte della Mafia, vale a dire di quell’organizzazione criminale che decretò l’uccisione di Piersanti Mattarella, fratello del nuovo Presidente della Repubblica, del nuovo Presidente della Repubblica che nel suo discorso coperto di applausi ha definito la lotta alla Mafia “una priorità assoluta”?

Ma questa lotta non si combatte solo con le leggi, o con le forse dell’ordine, o con vuote parole, o con la presenza a convegni, ma soprattutto, prima di tutto, con i comportamenti.

Davanti a questa “strana” presenza, giudicata da alcuni “inopportuna”, i tanti ipocriti di questo Paese si sono subito affrettati a trovare una giustificazione.

E l’hanno trovata (proprio come una delle tante gride manzoniane) nel cerimoniale del Quirinale, secondo il quale hanno diritto ad essere invitati, fra gli altri, gli ex Presidenti del Consiglio e i leader delle formazioni politiche.

E come dubitare del fatto che nel mare magnum delle norme di questo Paese non ci fosse una norma, un articolo, un paragrafo, un comma adatto alla bisogna!

Ma quel diritto permane anche in presenza di una condanna definitiva?

E tra quel “diritto” e il “dovere” di essere credibile, cosa prevale?

Ma non è tanto questo l’elemento di disturbo che ho colto in quella presenza.

A me, più che “inopportuna”, quella presenza è apparsa in stridente contraddizione con il contenuto del discorso di Mattarella, in particolare con quel richiamo alla speranza, proprio a quella speranza che Mattarella aveva voluto richiamare (assieme alle difficoltà dei cittadini di questo Paese) con le prime parole pronunciate nella sua veste di Presidente della Repubblica.

Il fatto che trovo incoerente, da un punto di vista logico, prima ancora che morale, è che Mattarella abbia invitato (o abbia accettato che fosse invitato) chi, pubblicamente, definì “eroe” una persona che faceva parte della Mafia, vale a dire di quell’organizzazione criminale che, non solo dovrebbe essere oggetto di una lotta che lo stesso Mattarella ha definito “priorità assoluta”, ma che decretò la morte di suo fratello Piersanti, ucciso a Palermo il 6 gennaio 1980.

Come ha fatto Mattarella a non tener conto del segnale che quella presenza può veicolare?

Un conto è il rispetto delle procedure, o la volontà di riappacificazione, o il perdono (che i cattolici non negano a nessuno), un altro è il rispetto che si deve alle parole.

Mi è sembrata, quella presenza, un segnale incoerente con la volontà, espressa con delle parole, di dedicarsi alle difficoltà ed alle speranze degli italiani.

Qualunque messaggio, se si vuole che venga creduto, deve essere prima di tutto credibile.

E per esser tale, occorre fornire segni che ne confermino la credibilità.

Una famosa pubblicità degli anni sessanta, riguardante una lozione capace, secondo la “promessa”, di far ricrescere i capelli, indicava, quale “segno” di conferma della credibilità della promessa, la comparsa sulla fronte di un “benefico rossore”, segno premonitore della promessa ricrescita.

È, per esempio, con un segnale come quello veicolato da quella presenza (poco importa se frutto di un cerimoniale) che Mattarella pensa di poter riaccendere la speranza dei palermitani onesti, morta la sera del 3 settembre 1982, con l’uccisione, a Palermo, di Carlo Alberto Dalla Chiesa?

Possibile che proprio un palermitano come Mattarella sottovaluti il fatto che i segni sono un mezzo di comunicazione molto più efficace delle parole?

A proposito del nuovo Presidente della Repubblica

1 Feb

La scelta di Renzi di candidare Mattarella alla presidenza della Repubblica e, in particolare, quella di puntare tutto su questo nome, senza offrire, a nessuno, alcuna alternativa, è stata una mossa degna di un autentico uomo politico, di un abile giocatore di poker, di un vero erede di Niccolò Machiavelli.

Altro che i tanti parolai da salotto televisivo, che passano la vita a “riflettere”, ad “auspicare”, a “dibattere”, senza mai venire a capo di nulla, senza incidere nella realtà, senza decidere su nulla.

Dimostra soprattutto la capacità di Renzi di non rimanere intrappolato in rigidi schemi, di muoversi non in maniera lineare, prevedibile, ma di “saltare”.

Questa sua mossa mi ha fatto venire in mente la mossa del cavallo nel gioco degli scacchi.

E con essa il titolo di uno dei (pochi) racconti di Andrea Camilleri che trovo non banali.

Cos’ha a che fare, per esempio, l’indicazione di Mattarella, il più fedele erede di Aldo Moro (la quintessenza della vecchia Democrazia Cristiana), con la “rottamazione” e con il “cambiamento”, le due parole magiche che hanno caratterizzato l’ascesa al potere di Renzi?

Nulla, ad una prima, superficiale, lettura.

Proprio la scelta di Mattarella sta infatti a dimostrare quanto siano ridicoli gli slogan, tutti; è del tutto evidente quanto non sia assolutamente vero che essere giovane (anagraficamente) voglia dire, meccanicamente, essere capace di cambiare (in meglio), quanto sia privo di senso “rottamare” indistintamente tutto il passato, dove invece, a ben cercare, spesso si trovano utili indicazioni per il futuro.

La scelta di Mattarella non è un’evidente contraddizione con gli slogan di cui Renzi si è servito per conquistare il potere, è la mossa di un abile politico, pragmatico, spregiudicato, come deve essere un vero politico.

 

post scriptum: nelle sue prime parole da Presidente della Repubblica, Mattarella ha fatto riferimento alle difficoltà ed alle speranze degli italiani. Bene, vedremo (anche a breve) che ne sarà di una tra le più grandi speranze, quella di conoscere la verità sui tanti misteri italiani, a cominciare da quella sui tanti “cadaveri eccellenti”, per citare (non a caso) il titolo di uno dei più bei film di Francesco Rosi, ispirato all’opera di un altro siciliano, Leonardo Sciascia.