Archivio | luglio, 2019

A proposito del fenomeno Camilleri

18 Lug

Il 6 maggio 1999 il pubblico di Rai 2 conobbe Salvo Montalbano, e con lui Vigàta, Fazio, Catarella ecc.

Andò in onda, quella sera, “Il ladro di merendine”, il terzo giallo di Camilleri con protagonista il commissario Montalbano (prima c’era stato “Il cane di terracotta” e, prima ancora, “La forma dell’acqua”).

Chissà quanti, quella sera di vent’anni fa, dopo aver visto “Il ladro di merendine”, avrebbero scommesso sul successo di quel nuovo commissario di polizia.

Significativo il fatto che quel primo episodio sia stato trasmesso sul secondo canale e non sulla rete ammiraglia della Rai.

Segno che i primi a nutrire dubbi sul successo di quel nuovo personaggio erano proprio i dirigenti Rai.

Quell’episodio era tratto dal racconto omonimo di Camilleri, un autore già molto noto in Rai ma pressoché sconosciuto al grande pubblico.

Anche a quello televisivo, nonostante che si trattasse di un nome che, da quasi 40 anni, era di casa non solo nel mondo della televisione ma anche in quello del teatro.

Chissà quanti, per esempio, avevano associato il nome di Camilleri a quel Camilleri che compariva nei titoli di coda dei primi episodi del commissario Maigret, trasmessi dalla Rai a metà degli anni ’60.

Quello che è successo dopo la visione di quel primo episodio è qualcosa di incredibile, di inspiegabile.

Ancora oggi, a distanza di tanti anni, ci si chiede a cosa sia dovuto l’incredibile successo del commissario Montalbano (gli esseri umani hanno un istintivo bisogno di spiegare qualsiasi cosa accada secondo una logica di causa-effetto).

Tante le ipotesi, ma nessuna convincente.

L’idea che mi son fatto è che il successo di Camilleri, un successo planetario, senza precedenti, sia un successo indotto: non è l’autore la chiave, ma i personaggi da lui creati, unitamente all’ambiente nel quale questi agiscono.

E quando parlo di ambiente non mi riferisco ai luoghi reali, ma all’immaginazione, alla fantasia, a ciò che quei luoghi evocano, al fascino millenario che li circonda: la Sicilia che fa da sfondo alle avventure di Montalbano non è la Sicilia reale, quella delle strade impercorribili, quella delle montagne di spazzatura che da tempo immemorabile fanno da sfondo, quella degli intrallazzi, quella delle collusioni di larghi strati della società col potere mafioso, quella delle coste deturpate da un abusivismo osceno, ma quella che il nome stesso “Sicilia” evoca, al solo pronunciarlo, nella mente di chi ascolta, di chi guarda, quella dei miti del passato, quella che ancora oggi, nella mente di tante persone, rappresenta il mondo esotico a portata di mano.

E chi più di Camilleri poteva avere la consapevolezza della potenza creatrice della letteratura?

Non a caso, a chi gli chiedeva come mai non avesse mai scritto di Mafia, Camilleri rispondeva dicendo di non averlo mai fatto per paura di creare, seppure involontariamente, eroi simpatici (forse pensava al Padrino, di Mario Puzo, personaggio reso simpatico da Marlon Brando).

Tornando al successo del creatore del commissario Montalbano, credo che questo lo si debba più alle scene televisive che non alle pagine dei romanzi.

Si tratta in sostanza di un fenomeno mediatico (mediatico, non solo editoriale) ed è inutile, vista la natura del fenomeno, cercare spiegazioni: sarebbe come cercare causalità in eventi casuali.

E cercare di spiegare in termini di causalità quelli che sono fenomeni casuali è qualcosa di irrimediabilmente sbagliato.

A proposito della singolarità di certe traduzioni

11 Lug

Agli inizi del XX secolo nelle comunità degli italiani che erano emigrati negli Stati Uniti d’America alla fine dell’800 era diffuso l’uso dell’espressione goose by me.

Tradotta letteralmente, significa oca per me.

In realtà quell’espressione veniva usata per dire per me sta bene.

Si trattava di una specie di lasciapassare, orale ma non per questo meno importante, usato specialmente nell’ambiente della malavita, che proprio in quegli anni stava mettendo radici in America.

Ma cosa c’entrava un’oca con quel lasciapassare?

Il fatto è che per quegli italiani la pronuncia della parola ok (ochei), che sentivano usare dagli americani ogni volta che questi intendevano dire che erano d’accordo su qualcosa, aveva trasformato quell’ok in oca.

Quegli italiani, che stavano cominciando ad integrarsi nelle loro nuove città, pensarono allora di tradurre quell’oca nella loro nuova lingua, ed ecco venir fuori goose.

Un caso analogo di traduzione “creativa” è quello che riguarda il palermitano Francesco Procopio Cutò.

Appena ventenne, Cutò lasciò la sua città natale ed emigrò a Parigi, città nella quale fondò, nel 1686, il più antico caffè della ville lumière (le Café Procope), il primo caffè letterario (il locale si differenziava dagli altri per la disponibilità di giornali e di carta e calamaio).

A quel giovane palermitano si deve la scoperta di due cose importanti nella fabbricazione del gelato: l’uso dello zucchero al posto del miele e quello del sale marino assieme alla neve, per farla durare più a lungo.

Il giovane Procopio, per adattarsi alla sua nuova città, trasformò il suo cognome in Couteaux.

Quel Couteaux fu poi tradotto in italiano in “de’ Coltelli” (per via del fatto che la pronuncia della parola couteaux, che Procopio aveva scelto per assonanza con quella che in francese significa coltelli, richiamava proprio il nome Cutò).

E fu così che il nome Cutò fu soggetto ad una doppia trasformazione: fu dapprima francesizzato in Couteaux, per poi essere italianizzato in de’ Coltelli! Un vero doppio salto mortale!

N.B.: Il nome Cutò deriva dal greco κουτός (sciocco, stupido) ed è presente solo nella zona del messinese (si tratta di un piccolo torrente che, nei pressi di Bronte, si immette nel Simeto, il fiume più importante della Sicilia).

La traduzione è un’attività che richiede una profonda conoscenza delle lingue. Ma, prima ancora, la capacità di cogliere il senso di ciò che è scritto.

9 Lug

Giorni fa, “navigando” su Twitter, mi sono imbattuto in una vera perla di traduzione: un articolo riportava, tradotti in italiano, i risultati di una ricerca sulle cause di una frattura presente su un cranio scoperto nel 1941 in Cioclovina (Romania).

Quel cranio apparteneva ad un uomo vissuto circa 33.000 anni fa.

Ciò che mi ha colpito, in quell’articolo, è stato leggere che “le ferite non sono accidentali, ma compatibili con colpi inflitti ripetutamente con un’arma, come il corpo di un pipistrello”.

C’era evidentemente qualcosa che non andava in quella traduzione (poteva mai il corpo di un pipistrello essere un’arma?).

Incuriosito, sono andato allora a leggere l’articolo originale, pubblicato sulla rivista scientifica Plos One, ho letto injury induced by a blow with a round, bar-like object baseball bat.

Chi aveva riportato i risultati di quella ricerca aveva tradotto il termine inglese bat pensando a Batman, ignaro del fatto che quel termine significa anche mazza, bastone, come nel caso dell’articolo originale.

Quello che ho trovato incredibile in questa vicenda non è però l’errore di traduzione, ma l’avere scritto una cosa assurda, senza senso, e, ancor di più, l’aver accettato che potesse stare in piedi un’assurdità inaudita, quale come il corpo di un pipistrello.

Ripeto: la cosa incredibile non è quella traduzione ridicola, né il fatto che ne sia stata consentita la pubblicazione; la cosa incredibile è che tanto l’autore di quella traduzione quanto chi ha consentito che venisse pubblicata hanno ritenuto possibile uccidere un uomo a colpi di pipistrello!

Questa vicenda mi ha fatto venire in mente altri esempi di traduzioni sbagliate, anche se non così incredibili.

Ne riporto alcuni, caratterizzati dal loro valore “creativo”: si tratta di errori che hanno creato, inventato, nuove realtà.

Il 15 maggio 1860, nei pressi di Calatafimi, si svolse la battaglia che aprì la strada a Garibaldi per la conquista del Regno delle Due Sicilie e la sua annessione al Regno di Sardegna, operazione che segnò l’inizio della formazione dell’unità d’Italia.

Il giorno precedente, a Salemi, Garibaldi aveva assunto, in nome di Vittorio Emanuele II, il titolo di “dittatore” e aveva proclamato Salemi capitale del Regno d’Italia (pochi lo sanno, ma Salemi è stata, anche se solo per un giorno, la prima capitale del Regno Unito d’Italia).

Nel 1892, in località “Pianto Romano”, venne inaugurato il Sacrario in ricordo di quella famosa battaglia.

Ma cosa vuol dire quel “pianto romano”?

Nulla, assolutamente nulla.

Si tratta della traduzione sbagliata dell’espressione siciliana con la quale gli abitanti di quella zona chiamavano quel posto.

In quella zona infatti nascevano chianti di vite (quella parte della Sicilia è famosa in tutto il mondo per il vino che vi si produce), dove quel chianti non è altro che il termine siciliano che sta per piante (quel Romano, molto probabilmente, si riferiva al nome del contadino proprietario di quel terreno).

Ecco che allora quel traduttore, anziché informarsi con le persone che abitavano in quei luoghi sul significato di quell’espressione, pensò bene di italianizzare quel chianti in pianto, dando vita in tal modo ad una nuova “creatura”.

Voler italianizzare espressioni dialettali porta anche a soluzioni assolutamente divertenti, come i calamaricchi affucati (polipetti in umido, tipico piatto della cucina siciliana), che diventano abbassami le orecchie annegati.

E che dire, restando in Sicilia, dell’origine del nome Castrogiovanni, l’antica Enna?

Quel nome non ha nulla a che vedere con Giovanni.

Deriva infatti da Qasr Yanna, in arabo roccaforte di Henna (Henna era il nome di quel luogo, sia per i Greci che per i Romani).

I Normanni lo tradussero in latino in Castrum Ioannes, da cui Castrogiovanni, nome in uso fino al 1927.

E per finire, un esempio forse ancora più divertente.

Questa volta risaliamo la penisola italiana, fino al suo confine nord-orientale, e arriviamo a Redipuglia, in provincia di Gorizia.

Il nome di questa località, nota per il sacrario militare, non ha nulla a che fare né con un re né con la Puglia.

Anche in questo caso abbiamo a che fare con una traduzione “creativa”, molto “creativa”.

Il nome Redipuglia è infatti la traduzione sbagliata di Sredi Polje, che in sloveno vuol dire in mezzo ai campi (la pronuncia è srèdi pòglie).

Tradurre non significa riprodurre, in modo meccanico, una sequenza di vocaboli da una lingua ad un’altra.

Tradurre significa rendere, nella lingua di arrivo, il senso contenuto in quella di partenza.