Archivio | settembre, 2012

A proposito di libertà di stampa

29 Set

Diversi episodi accaduti di recente in diverse parti del mondo (negli USA, in Francia, in Italia) hanno riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica il delicato tema della libertà di stampa e, più in generale, quello della libertà d’espressione.

Si tratta di un tema tanto importante, centrale, quanto ben noto fin dai tempi antichi, tema che costringe (o meglio, dovrebbe costringere, visto come, anche in questi giorni, è stato affrontato) a riflettere su un punto che molti, per varie ragioni, soprattutto ideologiche (che brutta cosa che è l’ideologia!), tendono ad ignorare o, nel migliore dei casi, ad affrontare in modo parziale, spesso anche mutevole, a seconda degli interessi che in un determinato momento vogliono proteggere.

L’elemento-chiave di cui non si ha/non si vuole avere consapevolezza, che si fa fatica ad accettare e a far capire a chi ci sta intorno è che la libertà, questo concetto di cui tanti parlano senza nemmeno essere in possesso della necessaria maturità che tale delicato tema richiederebbe, non è affatto un concetto assoluto.

Il significato, il senso della parola “libertà” non può essere banalmente ridotto a quello di “fare ciò che si vuole”, come, assecondando la sempre più diffusa insofferenza alle regole, si vorrebbe far credere; essere liberi, veramente liberi, non significa dire, scrivere, fare quel che ci pare, senza la minima cura delle conseguenze (tanto di quelle che riguardano noi stessi quanto di quelle che riguardano gli altri) di quello che diciamo, di quello che scriviamo, di quello che facciamo.

La nostra libertà, ben lungi dall’essere qualcosa di assoluto, è limitata, molto limitata, e questo per il semplice motivo che essa finisce là dove comincia quella degli altri.

Il triste, incredibile, spettacolo al quale purtroppo sempre più spesso siamo costretti ad assistere (e la cronaca di questi giorni ne è la migliore riprova) è vedere come la parola “libertà” venga impunemente strumentalizzata da personaggi senza scrupoli, mediocri, vigliacchi, che pure pretendono (e qui siamo veramente all’assurdo!) d’impersonare, essendo responsabili di fatti, di comportamenti vergognosi, la parte dei perseguitati.

Dando pure per scontata la giusta condanna di certe reazioni, quando queste risultano assolutamente sproporzionate al fatto che le ha scatenate, quello che proprio non vedo è quale relazione ci sia tra la sacrosanta libertà di un giornalista d’informare correttamente i lettori del suo giornale, riportando notizie riguardanti fatti accaduti (per come sono accaduti) o esprimendo le proprie opinioni in proposito, e la pubblicazione di notizie che il giornalista sa bene, nel momento in cui le si pubblica, essere false.

Ma perché mai si deve continuare a considerare giornalisti dei personaggi che, per mestiere, giocano a distorcere la realtà, per fini che nulla hanno a che vedere con la professione di giornalista?

Ma che cosa ha a che vedere con la libertà di stampa la pubblicazione di notizie che si sa essere false?

E per quanto riguarda la satira, ma che cosa ha a che vedere con questa fine forma d’espressione del pensiero l’offesa gratuita di persone, di comunità?

A proposito della cosiddetta “spending review”

19 Set

Dopo aver sottoposto la spesa pubblica ad un’approfondita analisi (attività per la quale si è fatto ricorso, secondo la ridicola abitudine di usare in modo ingiustificato termini stranieri, all’espressione “spending review”), il governo italiano ha cominciato ad indicare quali spese tagliare per ridurre il debito pubblico.

Devo dire che da un governo di tecnici, che in teoria avrebbe dovuto essere caratterizzato da indipendenza dai partiti, era lecito aspettarsi di sentire qualcosa di diverso dalla solita musica, qualcosa che assomigliasse ad un progetto di futuro per questo Paese, e invece, ancora una volta, assistiamo alla solita scena: anziché puntare sul lungo termine, su benefici di lunga durata, si è scelto di agire sul breve, sull’immediato, con una serie di tagli che, nella sostanza, ricordano molto i “tagli lineari” del precedente governo e che peraltro incidono solo marginalmente su quelli che sono i veri motivi all’origine degli enormi sprechi che caratterizzano la spesa pubblica italiana.

E per di più, cosa ancora più deludente, ci si è concentrati sugli sprechi che caratterizzano la cattiva gestione della spesa nel sociale e nella cultura, ignorando quelli che riguardano la burocrazia, la politica, le banche, le imprese.

Ancora una volta, per ridurre il debito pubblico si è scelto di privilegiare una semplice riduzione di una parte della spesa pubblica (quella politicamente più facile da aggredire) anziché, come invece dovrebbe essere, di eliminare da un lato i tanti privilegi e i tanti carrozzoni che gravano sul bilancio dello Stato e di impegnarsi concretamente dall’altro per un uso più efficiente delle risorse a disposizione, obiettivo tanto più strategico in un mondo caratterizzato da risorse limitate.

Ma, si sa, una cosa è fare proclami, altra cosa è agire in coerenza con quel che si proclama. Gli sprechi, per esempio, vanno eliminati anche se i beneficiari sono portatori di voti.

Quello che caratterizza la cattiva gestione dei fondi pubblici italiani non è dovuto tanto alla quantità di soldi spesi ma al perché questi soldi vengono spesi, al come vengono spesi, alle loro destinazioni finali.

Due piccoli esempi, che credo valgano più di tante parole, di come sia possibile usare in modo diverso le risorse a disposizione:

 

1) l’isola d’Elba (circa 30 mila abitanti, in 223 km²) conta ben 8 comuni;

2) l’isola di Salina (circa 2.300 abitanti, in 26,4 km²) conta 3 comuni.

Una semplice proposta: perché non ridurre ad uno il numero dei comuni di queste piccole isole? I soldi destinati a pagare lo stipendio di tante persone potrebbero così essere utilizzati per qualcosa di utile per la comunità, qualcosa che forse oggi non può essere fatto per mancanza di fondi.

Che senso ha cercare di convincere chi è già convinto?

14 Set

Ha destato un certo scalpore l’intenzione manifestata a Verona da Matteo Renzi di voler cercare voti, alle prossime elezioni politiche, anche tra quegli elettori che non hanno votato per il centrosinistra.

A prescindere da Matteo Renzi e da quel che dice, quello che trovo interessante nelle reazioni all’intenzione dichiarata dal sindaco di Firenze è il manifestarsi della classica abitudine di tanta parte del mondo politico italiano di parlare solo e sempre a chi fa già parte del proprio schieramento, della propria cerchia, segno evidente dell’autoreferenzialità che da sempre lo caratterizza.

Del tutto assente la voglia di aprirsi, di allargare il proprio raggio d’azione.

Meglio, molto meglio, per tanti politici italiani, aspettare, stare alla finestra, oppure affidare ad altri (per esempio alla magistratura) il compito di rendere inoffensivi gli avversari politici.

Tutto ciò mi ricorda molto il prete che se ne sta chiuso all’interno della sua parrocchia e lì sta ad aspettare che il popolo dei fedeli vada da lui, dopodiché si mette a parlare loro di cose di cui quelli erano già convinti prima d’entrare in chiesa.

Questo modo di fare risulta certamente molto più comodo, molto più facile: vuoi mettere lo sforzo che bisogna fare per andare tra la gente e, soprattutto, la fatica necessaria per cercare di convincere quelli che decidono di stare ad ascoltare (ecco dove sta il difficile) della bontà della proposta.

Ricordando Leonardo Sciascia

12 Set

E così, stando a quanto pubblicamente affermato in questi giorni da Luciano Violante, le istituzioni del nostro Paese (in particolare la Presidenza della Repubblica) sarebbero oggetto di una vera e propria canea, canea che sarebbe stata sollevata da alcune dichiarazioni di Grillo e di Di Pietro e da alcuni articoli del Fatto Quotidiano.

Più che entrare nel merito di questa affermazione, vale la pena notare il termine al quale Violante ha fatto ricorso per qualificare chi ha “osato” muovere delle critiche al nostro Presidente della Repubblica: gli autori di queste critiche (che pure, ipocritamente, vengono considerate “pienamente legittime”) sono stati infatti paragonati a una “muta di cani lanciati all’inseguimento della selvaggina”.

Questo modo di ragionare è tipico dei regimi totalitari, nei quali chi “osa” esprimere apertamente una critica contro il potere (entità idolatrata e per tale motivo ritenuta inviolabile, inattaccabile) viene per questo offeso, dileggiato, isolato.

Se poi si entra nel merito della questione, se si analizzano serenamente i fatti, si vede che se di canea si deve parlare questa è quella che si è abbattuta contro alcuni magistrati della Procura di Palermo, guarda caso contro quei magistrati che hanno condotto e stanno conducendo inchieste che vedono indagati importanti personaggi della politica italiana (dove, si badi bene, l’aggettivo “importanti” in questo caso non ha alcuna connotazione positiva).

Riflettendo poi sugli attacchi mossi ad Antonio Ingroia, attacchi che mi ricordano molto quelli di cui a suo tempo fu vittima Giovanni Falcone (prima che i tanti farisei di questo Paese ne facessero, una volta morto, un “santino”), mi rendo conto che aveva proprio ragione Leonardo Sciascia quando diceva che “la storia siciliana è tutta una storia di sconfitte della ragione, sconfitte degli uomini ragionevoli”.

A proposito dell’ultima puntata dell’Infedele

11 Set

La prima parte della trasmissione televisiva “L’Infedele” andata in onda ieri sera è stata dedicata alle critiche mosse dal presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati ai magistrati palermitani Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, presenti il giorno prima alla festa del “Fatto Quotidiano” e colpevoli, secondo l’accusa mossa nei loro riguardi, di non aver preso le distanze dalle critiche espresse nel corso di quella festa, in loro presenza, nei confronti del Presidente della Repubblica Napolitano.

Tra gli invitati alla trasmissione condotta da Gad Lerner c’era anche Luciano Violante, che ha detto chiaramente di condividere in pieno le critiche mosse ai due magistrati, dando così il suo contributo al loro isolamento, anche se poi ha aggiunto, con una tecnica tipica della più fine mentalità gesuitica, che le indagini che la Procura di Palermo sta conducendo devono, ovviamente, andare avanti (prima si mettono le persone in condizione di non poter agire e poi le si invita ad agire in piena libertà).

Quello che né Violante né nessun altro dei presenti ha detto è che il motivo vero all’origine delle critiche avanzate nei confronti dei due magistrati palermitani ha a che vedere col fatto che entrambi questi “servitori dello Stato” sono impegnati in indagini che vedono coinvolti importanti personaggi della politica italiana.

Devo dire che le parole pronunciate (e quelle non pronunciate) da Violante non mi hanno stupito per niente, dal momento che sono state pronunciate da parte del principale esponente di quella scuola di pensiero per la quale la giustizia deve essere “sensibile” agli interessi della politica, da parte cioè del massimo teorico della sottomissione della giustizia alla politica (teoria alla base dei tanti casi di uso strumentale della giustizia a fini politici).

Per chi non lo sapesse o se ne fosse dimenticato, Violante è anche la persona che pronunciò quel famoso discorso alla Camera nel quale rivendicò il merito di aver dato piene garanzie a Berlusconi che una legge sul conflitto d’interessi non sarebbe mai stata fatta, nonché la stessa persona che invitò a comprendere le ragioni dei ragazzi di Salò.

La cosa che più mi intristisce quando sento fare certe affermazioni è vedere come queste trovino un così largo credito nella società italiana, segno evidente della scarsa considerazione nella quale è tenuta in questo Paese la giustizia, quella giustizia per la quale molti italiani perbene sono andati (alcuni anche consapevolmente) incontro alla morte.

A proposito del Movimento 5 Stelle

9 Set

In questi giorni non fa che aumentare lo spazio dedicato dai mass media italiani allo scandalo suscitato dalla recente “intercettazione” che ha visto coinvolto il movimento di Beppe Grillo.

Al di là del merito della questione – se ci sia cioè vera democrazia all’interno del movimento 5 stelle – questa storia, che vede al centro il duo Grillo-Casaleggio, col primo attento ad occupare costantemente la scena ed il secondo, con quel suo look da intellettuale, da guru del movimento, attento più che altro a non apparire, a non lasciar traccia dei propri interventi e di quelli degli aderenti al movimento, mi ricorda tanto il duo Bossi-Miglio, col primo sempre sulla scena, a spararle una più grossa dell’altra, e il secondo – quello che passava per l’ideologo del movimento – più dietro le quinte, con quel suo ridicolo look, col quale voleva ostentare non soltanto la sua non appartenenza al popolo italiano ma soprattutto la sua appartenenza al mondo dell’imperatore Francesco Giuseppe.

In entrambi i casi vedo i tipici segni dei movimenti religiosi (tanto la Lega quanto il M5S, infatti, più che alla politica fanno pensare alla fede) : nel caso della coppia Bossi-Miglio il mito religioso era stato costruito sul concetto di “popolo padano”, nel caso della coppia Grillo-Casaleggio come collante dei “fedeli” è stato utilizzato il (presunto) potere magico della rete.

Al di là comunque delle caratteristiche di questi movimenti vedo ancora una volta venir fuori l’abitudine, tutta italiana, di valorizzare personaggi che in un mondo normale troverebbero collocazioni più corrispondenti al loro valore reale (molto basso), anziché a quello artificiale, tipico frutto di quel mondo virtuale, dominato dal marketing, nel quale ormai viviamo.