Secondo la definizione che ne dà il nostro codice civile, l’appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.
Se pensiamo agli appalti pubblici (di cui tanto si parla nei mezzi di comunicazione) e facciamo ricorso ad un linguaggio più concreto, meno burocratico, possiamo definire l’appalto come lo strumento attraverso il quale ingenti somme di denaro pubblico passano dalle casse della collettività a quelle di determinati soggetti privati (i vincitori delle gare di appalto).
Questo modo di definire l’appalto pubblico consente di vedere come in tanti casi (la cronaca, recente e non, del nostro Paese ne è piena) il vero scopo di questi contratti sia non tanto la realizzazione di un’opera pubblica quanto il trasferimento di denaro pubblico in mani private.
Non solo, ma c’è di più: in parecchi casi le gare d’appalto si riducono ad una mera finzione, all’espletamento di una pura formalità, esattamente come avviene nei concorsi pubblici, dove spesso i nomi dei vincitori sono noti già prima del concorso, la cui funzione si riduce a quella di dare una patina di legalità a scelte fatte assolutamente al di fuori delle leggi.
Il sistema che negli anni si è venuto a consolidare nel nostro Paese è un sistema completamente marcio, in cui gli interessi di alcuni soggetti privati prevalgono sempre più su quelli della collettività.
La cosa che rende il quadro ancora più desolante è il fatto che non esiste alcuna possibilità di cambiamento del sistema dal suo interno, dal momento che il criterio adottato nel nostro Paese per la selezione della sua classe dirigente è quello della cooptazione, non certo quello della competenza.
Quel che poi è davvero incredibile è che il fatto che attraverso questo meccanismo di selezione sia stato consentito a degli emeriti mascalzoni (in qualche caso anche imbecilli, il che ha aggravato ancora di più la situazione) di incidere sulla vita collettiva sembra non preoccupare più di tanto.
Le persone serie, che pure esistono, non devono però rassegnarsi a questo stato di cose.
Devono (e qui sta la condanna alla quale sono destinati) rialzarsi sempre dopo ogni caduta e riprendere a combattere, pur nella lucida consapevolezza di non avere alcuna possibilità di raggiungere l’obiettivo, quello di vivere in un mondo più giusto.
Il senso della vita sta nella lotta, così come il senso del viaggio sta nel viaggio stesso, e non nella meta che si vuole raggiungere.