Archivio | dicembre, 2011

A molti la libertà fa paura

31 Dic

Essere liberi non significa, come banalmente si è soliti pensare, fare ciò che più ci piace, e per di più farlo senza considerare in alcun modo le conseguenze delle nostre azioni.

Essere liberi significa essere capaci di assumersi le responsabilità che l’essere liberi comporta, a cominciare da quella di poter scegliere senza condizionamenti.

Sapere aude!, abbi il coraggio di sapere, di conoscere.

Ma sapere, conoscere, comporta l’assunzione di responsabilità e con essa la capacità di affrontare rischi, dai quali è invece comodo rifuggire.

Ed è per questo motivo che in realtà, contrariamente a quello che comunemente si crede, molte persone hanno paura della libertà, a tal punto che spesso la rifiutano, preferendo seguire la via più facile, più rassicurante, più comoda, che porta a far scegliere gli altri, così da poter sempre presentare le loro decisioni, le loro azioni come la conseguenza di qualcos’altro, come l’imposizione di qualcun altro, mai come frutto di loro libere scelte.

Far risalire al nostro esterno la responsabilità delle nostre decisioni, ecco cosa si ricerca, altro che la tanto invocata libertà!

In tante occasioni ho potuto constatare direttamente quanto sia radicata l’abitudine di cercare sempre un appiglio (una legge, una procedura) al quale potersi aggrappare pur di non esporsi, pur di non dovere decidere in proprio su cosa fare, su come agire quando ci si trova di fronte ad un problema.

Sono proprio in tanti, per esempio, ad aver paura (una paura a volte paralizzante) di assumersi la responsabilità di decidere come vada applicato un principio sancito in una norma di carattere generale, abituati come sono ad agire come semplici automi, ad applicare in modo automatico regole precise, piuttosto che facendo riferimento a principi di carattere generale.

Questi esseri-automi, ogni volta che sono chiamati a decidere su un caso specifico, vanno subito alla ricerca di una regola che descriva quel particolare fatto e che indichi loro come comportarsi, come agire e se non la trovano ecco che allora si bloccano e, non sapendo cosa fare, prendono tempo, rimandano all’infinito la loro decisione e nel frattempo cercano di scaricare su altri le loro responsabilità.

Questa visione meccanicistica, che porta a ricercare per ogni singolo fatto una specifica regola, è indice di una mentalità che degrada l’essere umano a banale esecutore di regole decise da altri, è la negazione della capacità dell’essere umano di elaborare decisioni proprie, sulla base di propri ragionamenti.

Quello che queste persone non riescono proprio a capire è che per quante regole, per quante leggi, per quante procedure ci possano essere, ci sarà sempre un caso, nella vita reale, che risulterà non previsto da nessuna di queste.

Davanti a questo caso non contemplato da nessuna regola l’esecutore meccanico si fermerà, impaurito, incapace com’è di ragionare, di pensare con la propria testa, di assumersi la responsabilità di scegliere da solo e chiederà allora ancora una nuova regola, e così all’infinito, col risultato di finire tutti quanti sepolti da procedure, leggi, regole, che alla fine, anziché fungere da guida, finiranno per determinare il blocco, il non agire.

Quelle che mancano sono le persone veramente responsabili, in grado d’interpretare correttamente e di applicare le leggi, non nuove leggi (quelle già esistenti sono fin troppe).

A proposito di leggi, nella nostra Costituzione (la legge fondamentale della Repubblica italiana) sono chiaramente indicati i principi ai quali si deve fare riferimento nel decidere sui casi che si possono presentare nella vita di tutti i giorni.

Il punto è che giudicare secondo principi è cosa ben diversa che giudicare secondo regole; significa infatti stabilire un collegamento logico fra un determinato caso concreto e i principi di portata generale fissati nella Costituzione, e questo senza la necessità di doversi appigliare ad una regola pre-esistente.

Le leggi, infatti, come ogni studioso del diritto sa bene, prima ancora di essere applicate vanno interpretate.

Ed è proprio qui che sta il compito, certamente difficile, sicuramente ricco di responsabilità, ma proprio per questo stimolante, del giudice responsabile.

In caso contrario, il suo ruolo si ridurrebbe a quello di un banale esecutore meccanico, di un semplice applicatore di norme. Il giudice finirebbe allora per essere nient’altro che una bocca della legge, secondo l’efficace espressione usata da Montesquieu.

Ma l’intelligenza vale più della fedeltà

22 Dic

Quella che considero essere la caratteristica che ha maggiormente connotato il cosiddetto “berlusconismo”, più che l’uso distorto delle parole, più che l’insofferenza verso le regole, più che il rifiuto di ogni controllo, più che la sostituzione della realtà fattuale con quella virtuale, è il totale appiattimento dei seguaci di questo movimento sulle posizioni del leader, la loro assoluta mancanza di capacità critica, d’indipendenza di giudizio, il loro non essere in grado di argomentare in modo razionale le proprie tesi.

A questo proposito val la pena di ricordare che, secondo la nostra Costituzione, “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” (art. 67).

Questo vuol dire che i parlamentari, proprio perché agiscono nell’interesse della nazione, non sono soggetti ad alcun mandato da parte degli elettori (che della nazione sono solo una parte).

Fra gli innumerevoli episodi che hanno evidenziato l’assoluta mancanza d’indipendenza di giudizio dei seguaci di questo movimento, quello che verrà ricordato come quello che ne ha segnato il punto più alto è senz’altro l’episodio accaduto alla Camera il 5 aprile di quest’anno, data in cui 314 deputati hanno pubblicamente affermato che la giovane marocchina Ruby fosse nipote del presidente egiziano Mubarak, incuranti non solo dell’evidente incongruità di questa tesi, ma più ancora della figura assolutamente ridicola che una simile affermazione avrebbe fatto fare loro.

Se però si riflette sul fatto che questo movimento non ha nulla a che vedere con un normale partito politico, ma che piuttosto fa venire in mente un movimento religioso, non ci si deve meravigliare più di tanto se i suoi seguaci sostengono la verità di qualcosa in evidente contrasto con la realtà.

Ma in quale partito si sono mai viste scene come quelle immortalate dalle foto apparse sui giornali a metà degli anni ’90, quelle che ritraevano il leader di questo movimento e alcuni suoi seguaci marciare in tenuta da tennis?

Alla fine, però, non c’è nulla di cui stupirsi: quello nel quale viviamo è notoriamente un Paese dove si è soliti attribuire più importanza alla fedeltà che all’intelligenza.

Troppo comodo dar la colpa alla globalizzazione

21 Dic

Nella seconda metà di quest’anno (ormai agli sgoccioli) gli italiani sono stati di colpo svegliati dallo stato di torpore nel quale da tempo si trovavano e così si sono resi conto che la crisi finanziaria esplosa alcuni anni fa negli Stati Uniti d’America interessava in effetti anche il bel Paese, contrariamente a quello che era stato loro assicurato fino a pochi giorni prima.

All’improvviso nelle case degli italiani sono entrati i bund e gli spread, termini dei quali fino ad allora s’ignorava la stessa esistenza, non solo il significato.

Tutto ad un tratto sono risultate evidenti le conseguenze di anni di assenza di una classe dirigente (politica, civica, imprenditoriale) degna di un Paese civile ed è cominciata una forsennata corsa contro il tempo, alla disperata ricerca delle misure necessarie per uscire dalla crisi.

Non ci si è però resi conto che dietro questa crisi finanziaria se ne nasconde una ben più grave, che ha a che fare, prima ancora che con gli indicatori dell’economia, con i modelli di vita, con i valori che sono stati presi a riferimento dagli italiani.

Ci si è affidati a dei professori, nella convinzione (illusoria) che questi, in quanto non vincolati al consenso elettorale, potessero risolvere i problemi di cui soffre il nostro Paese, a partire dal divario (crescente) esistente fra i diversi strati sociali della popolazione.

Come la Storia insegna (ma a volte c’è da domandarsi: a chi?) non sono certo i professori che possono risolvere a favore dei meno abbienti la situazione di evidente ingiustizia sociale che da tanto tempo caratterizza il nostro Paese, né la politica, come dimostra la cronaca di questi anni.

I governi italiani che si sono succeduti dal 1861 ad oggi non hanno mai adottato misure finalizzate alla crescita sociale degli strati meno abbienti della popolazione e questo ancor prima dell’avvento dell’era della cosiddetta globalizzazione, fenomeno al quale con troppa facilità si cerca di far risalire la principale causa dell’impoverimento generale che caratterizza gli anni che stiamo vivendo.

Chi manovra le leve di comando del mercato finanziario ha tutto l’interesse a far credere che crescita economica equivalga a sviluppo e ad enfatizzare a tal fine il PIL, strumento in realtà assolutamente inadatto a misurare la vera ricchezza, il vero benessere di un Paese.

E non a caso la scuola italiana è vista più come fonte di alimentazione delle aziende che come luogo di produzione di conoscenza, di formazione di coscienze critiche.

E questo sarebbe il nuovo ministro degli Interni?

20 Dic

Sul sito del Fatto Quotidiano ho ascoltato l’intervista al nuovo ministro degli Interni, intervenuto ieri a Milano all’inaugurazione della locale sede dell’agenzia per i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.

Ascoltando le parole pronunciate dal ministro non ho potuto non notare un penoso tentativo di operare una distinzione fra mafia e cultura mafiosa, operazione che fa davvero cadere le braccia.

Sembrava di essere ritornati negli anni sessanta!

E questo, mi son chiesto, sarebbe il ministro degli Interni del nuovo governo, del cosiddetto “governo dei professori” (che, detto per inciso, finora sta dimostrando di essere stato troppo frettolosamente presentato come il governo della discontinuità)?

La cosa veramente triste è dover prendere atto che dopo 150 anni di unità nazionale ci ritroviamo ad avere ancora a che fare con rappresentanti dello Stato che, affrontando un argomento così importante e delicato qual è quello della mafia, si permettono di negare l’evidenza, o peggio ancora di giocare a spaccare il capello in quattro!

Se solo il nuovo ministro degli Interni leggesse un po’ qualche libro che racconta seriamente la Storia di questo Paese saprebbe che il potere di cui gode la mafia deriva principalmente dall’essere riconosciuta come “prestatore di servizi” e che i suoi “servizi” non sono solo imposti ma sempre più spesso cercati, in Sicilia come in Lombardia.

E per me chi cerca i “servizi” del mafioso è ancora più colpevole del mafioso.

E questo al di là del fatto che, per legge, colpevole di un delitto non è solo chi lo commette, ma anche chi consente che il delitto avvenga (per esempio non usando correttamente tutti i mezzi a sua disposizione per impedirne il compimento).

E anche al di là del fatto che chi, in generale, avendone la possibilità, non interviene per eliminare un problema la cui esistenza consente a qualcuno di trarne un illecito beneficio andrebbe considerato ancora più colpevole di chi trae il beneficio derivante dall’esistenza di quel problema.

Chi cerca i “servizi” della mafia è ancora più colpevole della mafia stessa perché cercarne i “servizi” significa soprattutto riconoscere alla mafia quello status che sta esattamente alla base del suo potere.

Perché non ci si indigna contro lo schifo del calcio-scommesse?

20 Dic

In questi giorni sui giornali si parla dell’ennesimo episodio dello scandalo del calcio-scommesse, diventato ormai un vero e proprio serial nazionale.

Il virus della corruzione è penetrato nel mondo del pallone poco più di trent’anni fa e devo dire che l’ambiente che lo ha accolto, visto che ormai questo potente agente infettivo risulta esservi di casa, si è rivelato un habitat decisamente favorevole.

Aggiungo anche che, nonostante gli scandali che si sono succeduti dal 1980 ad oggi, in tutti questi anni non ho mai visto un’adeguata indignazione da parte degli italiani nei confronti di questa autentica vergogna nazionale.

Evidentemente nel nostro Paese il mondo del calcio è considerato una specie di zona franca, ma come mai?

Come mai chi va allo stadio, chi si occupa di calcio sui giornali, chi ne parla in televisione, sembra essersi abituato a questo schifo?

E che dire, a proposito della degenerazione subita in questi anni dal mondo del pallone, degli ingenti costi che la collettività deve sistematicamente sopportare in occasione di una semplice partita di calcio, del fatto che i cittadini abbiano ormai accettato che le loro città si trasformino in campi di battaglia?

Come mai non c’è un’indignazione generale da parte degli italiani contro tutto questo?

Forse perché il calcio è diventato un efficace strumento per acquisire potere nel mondo dell’economia e a volte anche in quello della politica?

L’eterna commedia della politica italiana

18 Dic

Quello che fa della situazione italiana un qualcosa di veramente unico nel panorama delle democrazie occidentali è che da noi non esiste, non è mai esistita, una reale idea di alternativa nel modo d’intendere il potere politico.

I politici, fin dalla nascita dello Stato italiano, hanno sempre visto il potere come uno strumento di cui impossessarsi per poter godere dei privilegi connessi con la sua disponibilità, col suo uso, non come la condizione necessaria per poter fare qualcosa di concreto per risolvere i problemi dei cittadini italiani.

Al di là delle apparenze e pur nella consapevolezza delle enormi difficoltà di governare un Paese da sempre insofferente alle regole, più sensibile ai diritti che non ai doveri, non si può non notare che chi, oggi come ieri (e come domani), sta all’opposizione (termine dal significato ben diverso da quello di “alternativa”) è il semplice interprete (anche se non sempre consapevole) di una parte dello spettacolo (sempre lo stesso) che si recita nel teatro chiamato “Italia”.

Chi, di volta in volta, sta all’opposizione non si prefigge (al di là di ciò che indica nel suo programma ufficiale) l’obiettivo di attuare, una volta al governo, le misure necessarie per assicurare ai cittadini ciò di cui hanno realmente bisogno (un lavoro dignitoso, una giustizia rapida e giusta, un sistema fiscale equo, un’istruzione di alto livello, un efficiente sistema sanitario, un’informazione indipendente) ma, più semplicemente, quello di sostituirsi a chi sta al governo, per fare, una volta acquisito il potere, cose sostanzialmente non molto diverse da quelle fatte da chi lo precedeva: gestire il potere.

La conseguenza più negativa di questo modus operandi è che i cittadini italiani (almeno quelli non ideologizzati) sono diventati sempre più diffidenti nei confronti della possibilità di un reale miglioramento della “cosa pubblica” da parte della politica.

Proprio come Pirandello aveva scritto ad un suo amico alcuni anni prima che uscisse la sua famosa commedia “Il giuoco delle parti”, «Chi ha capito il giuoco non riesce più a ingannarsi; non può più prendere né gusto né piacere alla vita».

Perché lo Stato non incassa l’ICI dovutagli dalla Chiesa cattolica

13 Dic

In questi giorni ho letto tanti articoli sul mancato versamento dell’ICI da parte della Chiesa cattolica e in quasi tutti ho notato quello che considero il principale difetto della stampa italiana (oggi aggravato dall’uso di Internet): la mancanza di una minima verifica dei fatti di cui si parla.

La tesi sostenuta da parte della maggioranza degli interventi è che lo Stato italiano abbia favorito la Chiesa cattolica,  fornendole la possibilità di non pagare l’ICI su immobili per i quali invece non spetterebbe l’esenzione dal pagamento di questa tassa.

Questo per avere esteso, attraverso un provvedimento legislativo del 2006, l’esenzione dal pagamento dell’ICI (già sancita con una legge risalente al 1992) ad “attività che non abbiano esclusivamente natura commerciale“.

Ho cercato di saperne di più e per prima cosa sono andato a leggere cosa dice il testo dell’art. 39 (titolo dell’articolo: Modifica della disciplina di esenzione dall’ICI) del provvedimento legislativo “incriminato” (decreto legge 4 luglio 2006, n. 223).

Eccolo: “All’articolo 7 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, il comma 2-bis è sostituito dal seguente: «2-bis. L’esenzione disposta dall’articolo 7, comma 1, lettera i), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504, si intende applicabile alle attività indicate nella medesima lettera che non abbiano esclusivamente natura commerciale.».

Ho cercato quindi di conoscere il parere di due fra le più autorevoli fonti della Chiesa cattolica, l’Osservatore Romano e l’Avvenire:

Osservatore Romano (11 novembre 2007): “la più odiosa delle accuse è quella secondo la quale l’esenzione verrebbe ottenuta inserendo una cappellina in un immobile non esente, così da farlo rientrare nel concetto di immobile destinato ad attività «non esclusivamente commerciali». È vero il contrario: una cappella all’interno del solito albergo perderebbe l’esenzione di cui, autonomamente considerata, godrebbe.

“Se qualche albergo si comportasse come una casa per ferie non ne conseguirebbe che l’esenzione è ingiusta, ma che è erroneamente applicata. Per questi casi i comuni dispongono dello strumento dell’accertamento, che consente loro di recuperare l’imposta evasa. E prima ancora essi dovrebbero contestare ai gestori l’esercizio di attività alberghiera con un’autorizzazione amministrativa incongrua”. 

Avvenire (11 dicembre 2011): “non è vero che basta inserire un’attività non commerciale in un immobile in cui si svolgono attività che non godono del regime di favore per sottrarre all’imposizione tutto l’immobile (il caso di solito citato è quello di un luogo di culto, che sarebbe esente, all’interno di un albergo, che invece non è esente); la legge infatti richiede che ciascuna unità immobiliare sia utilizzata per intero per l’attività agevolata, altrimenti tutto l’immobile perde l’esenzione, compreso il luogo di culto.”

Secondo la Chiesa, quindi, la causa del mancato versamento dell’ICI per un immobile non esente da questa tassa non va individuata in un’esenzione concessale attraverso il decreto legge n. 223 del 2006 ma nel mancato accertamento, da parte dei comuni, di un comportamento della Chiesa contrario alle leggi dello Stato italiano.

Se poi i comuni non esercitano quanto in loro potere, peggio per loro.

La conclusione di questo sottile ragionamento (alla tipica maniera dei gesuiti) dell’Osservatore Romano e dell’Avvenire è molto semplice: i comuni italiani non incassano l’ICI che la Chiesa cattolica deve versare nelle loro casse per gli immobili non esenti da tale imposta non perché la Chiesa cattolica evade le tasse ma perché i comuni non utilizzano lo strumento dell’accertamento a loro disposizione.

Si distoglie cioè l’attenzione dal fatto che la Chiesa possa essere colpevole di evasione fiscale (procurando con ciò un danno per tutti i cittadini italiani) per spostarla sull’incapacità dei comuni.

In definitiva, se esiste dell’ICI dovuta allo Stato italiano da parte della Chiesa cattolica ma da questa non pagata, ciò significa due cose, semplici e chiare:

1. che la Chiesa cattolica evade le tasse (contravvenendo così ad una precisa indicazione di Gesù: Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio);
2. che lo Stato italiano non esercita alcun controllo sul suo territorio (sai che novità!).

 

A proposito del potere dei mercati finanziari

9 Dic

Com’è ormai evidente a tutti (e quello che è successo in Italia nei giorni scorsi ne è una chiara dimostrazione), le scelte della politica sono condizionate, a volte imposte, dalla finanza, dagli interessi economici.

Sono gli interessi economici che decidono se fare o no una guerra, se intervenire o meno a favore di popoli che hanno bisogno di aiuto, sono sempre gli interessi economici che decidono sulla salute, sullo stato di benessere delle persone.

Ma com’è stato possibile che la finanza acquisisse tutto questo potere? Com’è stato possibile arrivare a costruire un mondo virtuale così più potente di quello reale da arrivare al punto che la finanza oggi vale otto volte il PIL del mondo?

Direi, con particolare riferimento al nostro Paese, che alla base di questa vera e propria “escalation” ci sta la svolta che ha avuto luogo negli anni ottanta del secolo scorso.

In quegli anni la società italiana, prendendo come riferimento il modello politico-economico allora in auge negli USA (erano gli anni del cosiddetto “edonismo reaganiano”), scelse di adottare un modello di vita caratterizzato da uno spiccato individualismo, dal libero mercato, da tagli alla spesa pubblica, da meno solidarietà sociale, da una spinta verso una competizione senza esclusione di colpi.

Sono gli anni che aprirono la strada all’uso sfrenato delle carte di credito, ad un consumismo sempre più patologico (la gran parte degli acquisti si riferiscono a beni non necessari, superflui, per di più destinati a durare poco, così da mantenere sempre viva la necessità di acquistare).

Sono gli anni in cui la pubblicità, sempre più martellante, sempre pronta a creare falsi bisogni, diede a tutti non solo l’illusione che bevendo un determinato whisky o indossando determinate scarpe si potesse diventare come il “testimonial” della pubblicità, ma soprattutto (e qui sta il cuore del problema, cioè dell’indebitamento all’origine della crisi del sistema bancario) quella di poter comprare tutto (la casa, il viaggio, l’auto, ecc.), che per tutti tutto fosse a portata di mano (o meglio, di carta).

Tipica la frase: “compra oggi, comincerai a pagare fra sei mesi, con comode rate mensili” (da sottolineare il contenuto tranquillizzante del messaggio).

Ed è proprio nel modello di vita basato sul consumismo “all’americana” che ritengo vada individuata la causa principale della presa del potere da parte della finanza.

A proposito di questa assurda dipendenza dal consumismo, quello che è accaduto in questi giorni a Milano la dice lunga su quanto sia difficile, complicato, uscire dalla crisi nella quale ci troviamo, crisi culturale, prima ancora che economica.

Giuliano Pisapia, visti i dati sull’inquinamento atmosferico di Milano e per questo preoccupato per la salute dei suoi concittadini, ha deciso di bloccare il traffico automobilistico.

L’iniziativa del sindaco ha provocato l’immediata rivolta dei commercianti, che si sono affrettati a dire che un simile provvedimento avrebbe inferto un duro colpo alla corsa agli acquisti (che evidentemente per i commercianti milanesi valgono più della salute degli acquirenti).

Ma se un sindaco che decide di tutelare la salute dei suoi concittadini si trova ad avere a che fare con questo genere di difficoltà con i commercianti della sua città, come potrà mai un governo nazionale superare le difficoltà che si troverà a dover affrontare se decide di contrastare seriamente gli interessi dei mercati finanziari che comandano sul mondo intero?

Viviamo in un Paese debole, privo di anticorpi

8 Dic

In occasione dell’arresto di Michele Zagaria (capo del clan dei “casalesi”) molti hanno sottolineato la capacità della camorra d’infiltrarsi nelle istituzioni e di questo fatto ne hanno parlato come se si trattasse di una notizia.

L’infiltrazione della criminalità organizzata (in particolare di mafia e camorra) all’interno delle istituzioni dello Stato italiano, non solo in quelle della politica ma anche in quelle della cosiddetta società civile (con particolare riferimento alle banche, agli ospedali ed alle organizzazioni imprenditoriali), è infatti un dato ormai da tempo assodato, per cui non si capisce dove stia la notizia.

C’è da dire piuttosto che anche in questo caso gli inviati delle televisioni italiane non si sono fatti sfuggire l’occasione di porre agli abitanti del luogo dove viveva l’arrestato (vale a dire del luogo dove l’unica autorità riconosciuta da chi ci abita è quella della camorra) le solite, idiote, domande: lei lo conosceva? che tipo era? cosa ne pensa?

Ma si può?

Quello che però nessuno fa notare è che il dato che dovrebbe far riflettere non è che la criminalità si infiltri nelle istituzioni, ma che le istituzioni di questo Paese si lascino infiltrare con tanta facilità dalla criminalità.

Il male più grave di cui soffre l’Italia non è tanto quello di avere una criminalità organizzata così potente, quanto piuttosto quello di avere una classe dirigente (politica e imprenditoriale) ed una società civile così facilmente permeabili al malaffare.

Ed è proprio questa permeabilità che, da sempre, rende così potente la criminalità organizzata che opera nel nostro Paese.

Un Paese serio, dotato di una società civile degna di essere definita tale, non avrebbe per esempio consentito che certi personaggi acquisissero il potere di cui godono, li avrebbe messi al bando, li avrebbe emarginati.

La storia italiana, sia quella meno recente che quella di questi anni, è ricca invece di episodi che evidenziano come le istituzioni, come la società “civile”, abbiano sempre intavolato trattative con le associazioni criminali, in particolar modo con mafia e camorra, che in tal modo sono state, di fatto, accreditate dello status di vere e proprie controparti.

Se un virus riesce a stabilirsi all’interno di un organismo è perché quell’organismo è debole, privo dei necessari anticorpi.

Così come sta all’organismo che viene a contatto con un virus combattere questo pericoloso “ospite”, allo stesso modo sta allo Stato, in tutte le sue manifestazioni, combattere le varie forme di criminalità organizzata.

Il fatto è che, in alcuni (non rari) casi, la criminalità organizzata non è un ospite indesiderato, anzi.

Nella realtà, infatti, pezzi della cosiddetta società civile italiana non solo non evitano di venire a contatto con la criminalità ma anzi la cercano, amano esserne contagiati.

Il male esiste, fa parte del mondo nel quale viviamo (allo stesso modo di come la notte fa parte del giorno, l’inverno dell’anno) e quindi è perfettamente inutile, oltre che stupido, pensare che non avrebbe il potere che ha solo se non esistesse.

Sta a noi limitarne il potere, imparando a combatterlo ogni giorno.

A proposito della presenza di Monti a “Porta a Porta”

7 Dic

Come sempre più spesso accade in questo Paese, non si riesce proprio a non far confusione fra causa ed effetto.

L’ultimo esempio di questa vera e propria patologia nazionale ci viene fornito dalla presenza di Monti alla trasmissione “Porta a Porta” di ieri sera, fatto che, giustamente, ha fatto indignare molti italiani.

A questo proposito, vorrei far notare che il potere conquistato negli anni da Vespa deriva dal fatto che in Italia c’è tanta gente che riconosce dignità di giornalista a un simile personaggio, a uno che più che Carl Bernstein fa venire in mente Uriah Heep.

Per chi non l’avesse presente, Carl Bernstein è il giornalista americano che nel 1972, assieme a Bob Woodward (lavoravano entrambi al “Washington Post”), condusse l’inchiesta che svelò i retroscena del “Watergate”, vale a dire dello scandalo che costrinse Richard Nixon a dimettersi dalla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America.

Per quanto riguarda invece Uriah Heep, si tratta del personaggio reso celebre da Charles Dickens (in “David Copperfield”) per la sua ostentata umiltà, per l’untuosa ossequiosità e per la generale ipocrisia.

Tornando alla decisione di andare a “Porta a Porta”, Monti l’ha descritta come dovere di spiegazione verso i cittadini.

Ma se Monti avesse davvero voluto spiegare ai cittadini italiani (che fortunatamente non sono certamente identificabili in quelli che guardano “Porta a Porta”) i contenuti della sua manovra, da lui stesso definita “salva-Italia”, avrebbe potuto benissimo indire una conferenza stampa e chiedere alla Rai di trasmetterla nell’orario di massimo ascolto.

Questa, oltre alla manifestazione di una vera discontinuità con i precedenti governi, sarebbe stata anche l’occasione, per quelli (italiani che stranieri) che fanno realmente il mestiere di giornalista, di porre delle reali domande (e ce ne sono davvero tante!) sulle misure messe a punto da questo nuovo governo.