Archivio | giugno, 2013

Perché in Italia il modello Olivetti è stato sconfitto

11 Giu

In questi giorni sto leggendo una raccolta, appena pubblicata, di alcuni dei più significativi discorsi pronunciati da Adriano Olivetti, splendida e isolata anomalia italiana.

Di quest’industriale atipico, luminoso esempio d’ingegnere umanista (figura assai poco diffusa, in una società in cui si fa fatica a capire che la cultura, se è davvero tale, non è “scientifica” o “umanista”, ma semplicemente “cultura”), mi è sempre piaciuta l’idea secondo la quale scienza e cultura sono ricerca disinteressata della verità, così come l’idea secondo la quale il più alto fine che un’industria deve porsi come obiettivo non è quello rappresentato dal successo del proprio nome e del prodotto del proprio lavoro ma quello di contribuire attivamente al progresso – economico e sociale – della comunità nella quale opera.

Suo padre, Camillo, nel 1908 aveva fondato a Ivrea la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere ma fu lui, Adriano, il maggiore dei figli maschi, a fare dell’Olivetti qualcosa che in Italia non s’era mai visto prima e che non si sarebbe più visto dopo.

Quello che Adriano Olivetti ha realizzato in questo Paese a metà del secolo scorso (negli anni che vanno dall’immediato dopoguerra ai primi anni sessanta) rappresenta la realizzazione di un sogno, la concretizzazione dell’idea di una nuova idea di società, la realizzazione del modello di una nuova idea di fabbrica, vista come “un bene comune e non un interesse privato“, pensata affinché “la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno“.

In un suo discorso, rivolto ai lavoratori di Ivrea nel giugno 1945, pronunciò queste profonde parole: “Cosa faremo, cosa faremo? Tutto si riassume in un solo pensiero, in un solo insegnamento: saremo condotti da valori spirituali. Questi sono valori eterni, seguendo questi i beni materiali sorgeranno da sé senza che noi li ricerchiamo“.

Adriano Olivetti puntava a valorizzare l’intelligenza, a far crescere il sapere, non il lavoro (che segue, non precede, il sapere) e questo non poteva essere accettato in un sistema chiuso, reazionario, come quello che caratterizza la società di questo Paese, che teme come la peste il sapere, l’intelligenza, l’intraprendenza.

Il sapere, infatti, non è controllabile come il lavoro, specialmente se questo è organizzato secondo sistemi tradizionali, collaudati.

Non a caso Adriano Olivetti fu osteggiato tanto dai sindacati quanto dal Partito Comunista Italiano che, in quanto classici mediatori, preferivano al modello aperto, orizzontale, d’Ivrea quello tradizionale, verticale, della Fiat di Torino, città poco distante (in termini di chilometri) da Ivrea ma da questa lontanissima anni luce in termini di sistemi di relazione tra lavoratori e proprietà e tra fabbrica e territorio.

E non era certamente casuale il fatto che i dipendenti dell’Olivetti stessero decisamente meglio di quelli Fiat e questo, si badi bene, anche dal punto di vista economico.

Leggendo i discorsi di Adriano Olivetti, profondo umanista e pure (forse proprio per questo) tra i migliori imprenditori al mondo negli anni cinquanta, mi sono venute in mente queste parole di Joseph Roth: “Un uomo che non ha mai visto una fabbrica in vita sua e ha studiato Platone può affrontare e considerare la vita in modo mille volte più pratico”.

Il fatto che quando si parla dell’Olivetti di Adriano Olivetti non si parli semplicemente di un’idea, di un progetto, di un sogno, ma di una concreta realtà, di qualcosa che è esistito per davvero (tanti anni fa, per lavoro, ho avuto modo di vederne dal vivo gli uffici di Ivrea), è la dimostrazione che in questo Paese un mondo migliore sarebbe stato possibile.

Ma essere “super partes” non vuol dire essere connivente

7 Giu

In questo mio blog ho scritto più volte di come in questi anni si sia completamente perso il senso delle parole, di come molte di queste vengano utilizzate a sproposito, di come si tenda sempre più spesso a dare loro un significato diverso da quello reale.

Si tratta, in alcuni casi, di vere e proprie concretizzazioni del concetto di distorsione semantica.

Tra i tanti casi di storpiatura del significato delle parole, quello che riguarda l’espressione latina super partes è certamente uno dei più emblematici.

Com’è noto, super partes sta ad indicare una posizione al di sopra delle parti, neutrale.

Esempio tipico, quello di chi è chiamato ad esprimere un giudizio.

È infatti evidente che un giudice, per essere realmente tale, non deve aver alcun tipo di rapporto con nessuna delle persone sulle quali è chiamato ad esprimere un giudizio.

Prendiamo per esempio il caso del Presidente della Repubblica.

Alcuni ipocriti, incuranti (e forse anche ignari) del significato delle parole che utilizzano, non fanno che ripetere che a loro preme che questa sia una figura super partes, quando in realtà il loro è un chiaro invito, a chi si trova a ricoprire questo ruolo, a tener conto dei loro interessi.

Ma se, come previsto, il Presidente della Repubblica deve essere il custode della nostra Costituzione, è ovvio che in presenza di fatti, di comportamenti contrari ai principi in questa sanciti, deve essere dalla sua parte, dalla parte cioè della Costituzione.

Se così non fosse, se non fosse cioè dalla parte della legge madre di tutte le leggi, non sarebbe un vero giudice ma, di fatto, un semplice connivente (uno dei tanti) con quei soggetti che temono (a ragione, se sanno di aver tenuto dei comportamenti contrari allo spirito della Costituzione o addirittura di aver commesso dei reati penali) che le decisioni che questo “custode” è chiamato a prendere possano andare contro i loro interessi.

Il punto è che in questo Paese sono molti quelli ai quali sfugge che essere imparziale non vuol dire mediare tra un ladro e una guardia.

Il fatto che a dire di volere essere giudicate da giudici super partes siano persone di potere che, dietro quest’espressione (che usano ad arte, per far intendere ben altro a chi deve intendere), nascondono la loro pretesa di essere giudicate da giudici che non si facciano influenzare dalle leggi che sono chiamati ad applicare, ma dal loro potere, la dice lunga sul livello di arroganza di queste persone.

Prendere tempo, ovvero come evitare di prendere decisioni

7 Giu

L’incredibile governo nato poco più di un mese fa (definito da Napolitano “una scelta eccezionale e senza dubbio a termine”) è la più chiara dimostrazione della pervicacia con la quale chi in questo Paese occupa una posizione di potere tende a mantenerla il più a lungo possibile.

E pur di conservare il potere, qualunque strada, qualunque appiglio, va bene.

L’attuale governo, fortemente voluto da Berlusconi e reso possibile dall’allucinante percorso che ha portato alla rielezione di Giorgio Napolitano alla presidenza della Repubblica, è la migliore conferma dell’impossibilità di cambiamento che caratterizza il nostro Paese, di come in Italia il nuovo assomigli al vecchio, di come il tanto declamato bipolarismo sia soltanto uno specchio per allodole, una pura illusione, essendo di tutta evidenza che in realtà i detentori di determinati interessi sono tra loro fortemente collusi e che proprio per questo il loro ruolo non può che essere quello di semplici parti di un unico sistema.

Cos’ha fatto, per esempio, il nuovo presidente del Consiglio pur di non decidere, pur di rimandare ad un non ben definito domani scelte che avrebbero dovuto essere prese oggi, come per esempio quella di cancellare l’attuale legge elettorale, da tutti considerata (a parole) un’autentica porcata?

Seguendo le orme del “vecchio” Presidente Napolitano, che a marzo di quest’anno, in prossimità della scadenza del suo primo mandato, aveva pensato bene di nominare 10 “saggi”, anche il “nuovo” premier Letta, allo scopo di prendere tempo, ha pensato di nominare una commissione di saggi, il cui numero questa volta è aumentato incredibilmente, arrivando a quota 35 (!).

Ovviamente, oggi come a marzo, la decisione di nominare questi saggi è stata ammantata con motivazioni nobili, alte, al centro delle quali spicca sempre la preoccupazione del governo di curare meglio gl’interessi degli italiani, non certamente i propri.

Al di là però di queste ridicole scuse, quello che trovo più assurdo in questa continua esternalizzazione è il fatto che si debba ricorrere a soggetti al di fuori del Parlamento per attività che sono proprie di chi siede in Parlamento.

Ma se non svolgono i compiti che sono propri della loro funzione, che cosa ci stanno a fare i parlamentari nel Parlamento?

Mi viene in mente la tecnica adottata in molte aziende, quella di appaltare all’esterno lo svolgimento di certe attività, pur avendo al proprio interno una pletora di dipendenti pagati proprio per fare quello che viene affidato all’esterno.

E siccome in questo Paese il senso del ridicolo si è ormai perso, ecco che il nostro giovane nuovo premier (e con lui tante altri “attori” della commedia in scena da un mese a questa parte) non fa che ripetere che la vita di questo governo non è in alcun modo legata alle vicende personali di Berlusconi, quando invece è chiaro che, così come è stato per la sua nascita, anche la durata di questo governo dipende dal Cavaliere; gli altri, tutti gli altri, sono delle semplici comparse, strapagate dagli italiani ma sempre semplici comparse.

Ma come mai Berlusconi ha questo smisurato potere, senza pari in occidente?

Non è che questo dipenda, oltre che da come sono fatti gli italiani e dall’assoluta inutilità dei suoi avversari politici, anche dal fatto che forse, proprio grazie al suo potere ed ai suoi amici (italiani e non), è a conoscenza di fatti che potrebbero nuocere non poco a certi personaggi politici di questo Paese?