Archivio | ottobre, 2014

Il solito vizio di scambiare i sintomi con le cause

19 Ott

La marea delle polemiche sollevate dalla recente alluvione di Genova fornisce un quadro davvero avvilente delle istituzioni locali di questo Paese, risultate ancora una volta assolutamente inadeguate, incapaci come sono di affrontare come si deve i problemi concreti dei cittadini (di risolverli, nemmeno se ne parla).

Un’analisi attenta di questa triste vicenda fornisce, in più, la possibilità di riflettere su alcuni elementi che, non a caso, vengono tenuti nascosti all’opinione pubblica.

Mi riferisco a elementi che caratterizzano le gare di appalto indette dalla pubblica amministrazione italiana.

Come tutti hanno avuto modo di osservare, la gran parte dei politici e, al suo seguito, la cosiddetta “informazione” (che tutto fa tranne che informare correttamente), hanno subito puntato il dito accusatore contro il TAR (tribunale amministrativo regionale) di Genova, colpevole, secondo loro, di non aver consentito l’avvio dei lavori che, se alla data del 9 ottobre 2014 fossero risultati già realizzati (?), avrebbero potuto ridurre (se non evitare) i danni provocati dall’ultimo straripamento del torrente Bisagno.

L’intenzione di questa operazione di disinformazione, rivelatrice, da parte di chi l’ha messa in atto, di un’insofferenza ad ogni tipo di controllo, in particolare a quello di legalità (da qui gli inevitabili conflitti con la magistratura), è chiara: sviare l’attenzione, indirizzandola su un falso bersaglio, al fine di evitare che ci si possa porre la domanda-chiave: perché le gare di un appalto pubblico sono soggette a continui ricorsi al TAR, cosa c’è alla base di questi infiniti contenziosi, quali sono i vizi che sono presenti (in tutte le fasi, dalla progettazione all’esecuzione) degli appalti pubblici di questo Paese?

Eh già, perché se c’è una sentenza, deve pur esserci un motivo per cui dei contendenti si sono rivolti ad un giudice che l’ha emessa!

È come se, davanti al mancato superamento di una prova d’ammissione da parte di uno studente, si ritenesse responsabile di quella bocciatura la commissione esaminatrice e non invece l’impreparazione di quel candidato, e più ancora la scuola che ha frequentato, che non è stata capace di metterlo in grado di superare quell’esame.

Perché allora, stando a chi imputa alle commissioni esaminatrici la responsabilità delle bocciature di studenti risultati non idonei, non eliminare gli esami?

Non avendo però il coraggio di arrivare a tanto, si è scelto, per salvare la forma, di allentare le briglie, di rendere cioè gli esami sempre meno severi.

Poco importa se, a valle di questi esami sempre più formali, si immettono nella società persone sempre più ignoranti, sempre meno capaci di far funzionare meglio la società nella quale vengono inseriti.

A questo proposito mi è venuto in mente un altro esempio di quello che considero un vizio molto diffuso, quello di scambiare un sintomo con quella che è invece la causa all’origine del difetto che quel sintomo non fa altro che evidenziare.

Si tratta di un episodio del quale sono stato testimone diretto tanti anni fa, nel corso di una fase della mia attività lavorativa.

Mi trovavo presso uno stabilimento di un’importante azienda, chiamato per cercare d’individuare i motivi all’origine del cattivo funzionamento di di una delicata macchina utensile.

Dopo aver esaminato gli elementi che mi erano stati forniti da parte del responsabile della produzione di quello stabilimento, avevo concentrato l’attenzione sull’impianto idraulico.

Mi era stato riferito che, a seguito di continui blocchi imposti dal filtro (s’intasava spesso), avevano deciso, per evitare quelle continue fermate della produzione, di rimuovere quel filtro.

Analizzai allora in particolare il fluido che veniva utilizzato in quel circuito idraulico.

Mi accorsi che la sua formulazione non era compatibile col grado di protezione richiesto da quell’impianto; la causa di quei continui blocchi della produzione era quel fluido, non quel filtro.

La presenza, in quel circuito idraulico, di componenti di elevata criticità, quali servovalvole a ridotta tolleranza, imponeva infatti di dotarlo di un idoneo sistema di filtraggio.

Come conseguenza, il fluido idraulico da utilizzare avrebbe dovuto essere formulato con componenti che ne assicurassero la filtrabilità, ovvero la capacità di passare indenne attraverso il filtro, senza che quel fluido desse luogo, con l’esercizio, alla formazione di sostanze in grado di provocare l’intasamento di quel filtro.

La funzione di quel filtro era quella di proteggere l’impianto, era stato messo lì apposta!

Averlo tolto non solo non aveva rimosso la causa del problema che quei continui intasamenti avevano segnalato ma aveva creato un problema ancora più serio.

Torniamo adesso alle polemiche suscitate dalla recente alluvione di Genova.

Nessuno (salvo rarissime eccezioni) che abbia sollevato il tappeto sotto il quale, anche questa volta, si cerca di nascondere la polvere, nessuno che si sia chiesto: ma per quale motivo la gara per la realizzazione della copertura del torrente Bisagno ha dato origine a questi ricorsi, qual è cioè la “causa prima” all’origine delle sentenze del TAR di cui tanto si parla (quasi sempre a sproposito)?

Perché non si pongono domande come queste?

Forse perché, in questo come in tanti altri casi, verrebbe fuori che la “causa prima” del mancato avvio dei lavori ha a che vedere più con difetti degli uffici tecnici della pubblica amministrazione che non con la lentezza della burocrazia?

Per quale motivo non si parla della mancanza di adeguate competenze tecniche all’interno della pubblica amministrazione italiana, carenze che la costringono ad affidare a professionisti esterni compiti che le sono propri (in primis la progettazione delle opere), compiti che, a causa delle sue incapacità, la pubblica amministrazione non è in grado di svolgere?

Perché non si dice che a questo primo difetto si aggiunge il fatto che molti di questi professionisti hanno spesso rapporti professionali con le imprese che concorrono all’aggiudicazione degli appalti pubblici?

E che questo rapporto innaturale tra “controllore” e “controllato” diventa ancora più grave nella fase esecutiva dei lavori, nel corso della quale non solo emergono le carenze più gravi del committente pubblico (quelle che riguardano la progettazione, carenze che il ricorso a professionisti esterni non è in grado di superare, per il semplice motivo che non basta essere “esterno” per essere competente!), ma risulta ancora più evidente l’assurdità di una situazione che vede agire, nei panni del “controllore” per conto del committente, professionisti esterni non indipendenti dagli interessi del “controllato”?

Se poi si analizzasse seriamente l’intera vita di un’opera pubblica, anziché limitarsi a singole parti, ci si accorgerebbe che è proprio nella fase della progettazione che si annida la “causa prima” all’origine delle varianti in corso d’opera, vera regina delle anomalie degli appalti pubblici italiani.

Per avere una conferma del fatto che un progetto scritto male (a volte non solo per incompetenza) è il presupposto per successivi ricorsi, basta vedere cos’è venuto fuori nella gara avente come oggetto la costruzione dello scolmatore del torrente Fereggiano.

Ebbene, delle sei offerte presentate, ben quattro sono state ammesse con riserva.

E questo, a causa di come è stato scritto il bando di gara.

La conseguenza è che già adesso, prima ancora che i lavori abbiano inizio, risulta molto probabile la presentazione di ricorsi, con inevitabili ripercussioni negative sulla durata e sui costi di quest’opera.

Amicus Plato, sed magis amica veritas

14 Ott
Se dovessi indicare, tra le tante, una specificità (secondo me negativa) dei siciliani, non avrei alcun dubbio su quella che metterei al primo posto: il fare riferimento, dovendo individuare (qualunque sia l’ambito, qualunque sia l’attività) la persona giusta, non al merito, non alle competenze, non al valore, non a qualcosa di oggettivo, misurabile, riscontrabile, ma alle “conoscenze”, alle “amicizie”, vale a dire a quanto di più soggettivo ci sia.
Confondere “la” conoscenza con “le” conoscenze non è solo una questione di articoli determinativi.
Sono dell’idea (confortata dall’esperienza) che quella che a molti sembra essere (chissà poi perché) una componente essenziale dell’essere siciliani sia, proprio quella, all’origine dello stato nel quale si è ridotta la terra dove un tempo pascolavano le vacche sacre al Sole.
Non sto parlando dell’uso improprio, superficiale, della parola “amico”, di uno, cioè, dei sempre più frequenti segni di banalizzazione delle parole, né della miserabile strumentalizzazione che molti fanno, al fine di trarre un vantaggio rispetto ad altri, di ottenere un privilegio, di quello che è uno dei legami più importanti della vita.
Sto parlando dell’errore che si commette nel ritenere che una persona, in quanto “amico”, sia per questo all’altezza di ricoprire efficacemente un ruolo, una posizione, che sia in grado di fare bene quello che c’è da fare, nel pensare che l’essere “amico” legittimi una scelta, nel credere che sia possibile trasformare, come per magia, un incapace in un serio, abile, professionista.
Se un individuo, nella realtà, è un incapace, se questa è la verità, non c’è amicizia che tenga, rimane un incapace.
A questo proposito, ritengo si farebbe una cosa giusta se si tenesse sempre a mente quel che Don Chisciotte ricorda a Sancho Panza quando, citandogli la famosa sentenza latina amicus Plato, sed magis amica veritas, lo esorta a non dimenticare che la verità vale più dell’amicizia, che la prima, nella scala gerarchica dei valori, prevale sulla seconda.
E invece, a furia di fare ricorso a questa “procedura” (tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata) nella scelta, nella selezione, delle persone, a furia di affidarsi a gente incapace di fare bene, a furia di non tener conto della competenza, si è creato un sistema pericolosamente perverso, un sistema che, per il fatto di autoalimentarsi, aumenta sempre di più il proprio potere.
Quella che si è così venuta a creare è una vera deformazione permanente (ormai la piega è presa, per usare un’espressione ben nota ai siciliani, soprattutto ai palermitani).
Stando così le cose, non vedo come se ne possa uscire, come si possa rimediare ai tanti guasti prodotti da questa mentalità, così profondamente radicata in tutti gli strati della società siciliana.
E tra questi guasti, quello che considero sicuramente il più grave, il più deleterio, è quello di essersi così abituati a questo “metodo” a tal punto da non rendersi conto dell’esistenza del problema (anche perché questo “metodo” non viene considerato un problema).
E se non si ha nemmeno consapevolezza dell’esistenza di un problema, come si può pensare che lo si possa, non dico risolvere, ma almeno affrontare?
Non rendersi conto dell’enorme differenza che c’è tra far parte del giro delle proprie “conoscenze” ed essere una persona che sa fare bene il proprio mestiere, qualunque esso sia, è un errore che in certi casi può rivelarsi fatale.
Come nei casi in cui il cosiddetto “amico” al quale ci si rivolge non è capace di diagnosticare una grave malattia, non sa “leggere” il risultato di un esame, non sa eseguire correttamente un intervento chirurgico.
Quello che di un chirurgo dovrebbe interessare sapere, prima di affidarsi alle sue mani per un delicato intervento, non è di chi è “amico”, ma quanti interventi di quel tipo ha eseguito, con quale percentuale di successi e quando ha effettuato l’ultimo.
E il primo al quale questi dati dovrebbero interessare è il paziente in causa, indipendentemente dal fatto che quel chirurgo sia o no un “amico”, suo o di suoi “amici”.
Se è grave, come spesso accade ai siciliani, surrogare l’azione con le parole oppure scambiare l’apparenza con la realtà, scambiare “la” conoscenza con “le” conoscenze può, in certi casi, avere conseguenze molto serie.
P.S.: sebbene ne sia fortemente caratterizzata, la Sicilia, purtroppo, non detiene l’esclusiva nel ricorso a questa “procedura”.

A proposito dell’ultima alluvione di Genova

12 Ott

Eccoci qua, alle prese ancora una volta con un’alluvione.

E come sempre più spesso accade, anche in questo caso si gioca con le parole, per creare una realtà virtuale, con la quale sostituire quella reale.

Ecco che allora, nel tentativo volto, da una parte, ad ingigantire la portata del fenomeno meteorologico “alluvione” e, dall’altra, a diminuire le responsabilità di chi, con sempre maggiore evidenza, risulta incapace di gestire il territorio, si ricorre, incuranti del ridicolo, a termini quali “bomba d’acqua” e, più recentemente, “temporale autorigenerante”.

La realtà, quella vera, è che ancora una volta i cittadini di questo Paese devono fare i conti con i danni che un’alluvione è in grado di provocare se ad esserne colpita è una città italiana, in particolare se si tratta di una città fragile come Genova, devastata da cinquant’anni di edilizia selvaggia.

Ad aver però attirato la mia attenzione, in occasione dell’alluvione che ha colpito Genova nella notte tra il 9 e il 10 ottobre, non sono stati i sempre più penosi tentativi di scaricabarile di responsabilità messi in atto dai rappresentanti delle istituzioni locali, né quelli, inscenati sempre dagli stessi, di cercare di nascondersi dietro procedure complesse, farraginose, inapplicabili.

No, quello che l’altro giorno mi ha colpito è aver sentito il sindaco Marco Doria, una persona che in ogni caso considero una persona perbene, dire che se il Comune di Genova non ha adottato, quando sarebbe stato il caso (anche se forse, vista la tempistica, si sarebbe trattato di un’iniziativa inutile), le misure previste in caso di allerta meteo, è stato perché nessuno aveva segnalato lo stato di allerta.

Il motivo per il quale quelle parole hanno attirato la mia attenzione è perché le ritengo rivelatrici di un’idea, di un modo di pensare, di una mentalità, che considero inquietanti, perché vedo in esse i segni di qualcosa di surreale, di paradossale.

L’idea, cioè, che l’esistenza o meno di un fatto reale vada collegata ad un “comunicato ufficiale” e non invece, com’è ovvio che sia, alla sua osservazione, al suo accadere nella realtà, all’esserne persino testimoni diretti.

Che la situazione, nella tarda serata dello scorso giovedì, fosse da stato di allerta, era un fatto; tutti, a Genova, intorno alle ore 23 del 9 ottobre, sono stati testimoni oculari di uno “stato di allerta”.

Soprattutto quei genovesi che abitano nella zona della bassa Val Bisagno, nei luoghi dove si è verificata l’esondazione del torrente Bisagno.

Lo stato di allerta meteo era nei fatti; per rendersene conto bastava vederlo, non c’era bisogno di attendere un “comunicato ufficiale dell’autorità competente”.

E invece, secondo quelle parole, il sindaco di Genova, pur in presenza di segnali evidenti, come quelli che la realtà inviava in quelle ore, da “stato di allerta”, non poteva adottare le misure previste in caso di dichiarazione formale di stato di allerta perché l’autorità competente, quest’oracolo moderno, non aveva parlato.

No, lui doveva agire, coma ha agito, come semplice ingranaggio di una macchina (la burocrazia), autentica “entità superiore”.

Non importa se la “macchina” dalla quale dipendono le sorti di milioni di esseri umani è una “creatura” mostruosa, ottusa, arrogante, autoreferenziale, inutilmente complessa, inefficiente, com’è la burocrazia di questo Paese.

Nessuna iniziativa autonoma, nessuna assunzione di responsabilità personale, solo il rigido rispetto delle procedure.

Come ho detto prima, nelle ultime ore di giovedì 9 ottobre la situazione era già talmente compromessa che, anche se fossero state adottate, a quell’ora, anche in mancanza di una dichiarazione ufficiale di stato di allerta, le misure previste dalla procedura sarebbero risultate inutili (lo capisce chiunque che, perché abbia senso, uno stato di allerta deve essere dichiarato con largo anticipo rispetto al manifestarsi dell’evento per il quale dovrebbero scattare adeguate misure di protezione).

Quello che però trovo inquietante in questa vicenda è quello che intravedo dietro certe parole, dietro certi segni: una mentalità che fa pensare al Sant’Uffizio, al processo di Kafka, ai regimi totalitari, a qualcosa cioè che non solo tende a creare realtà virtuali, inesistenti nella realtà dei fatti, ma che arriva a negare l’esistenza della realtà vera, reale, osservabile da tutti, sotto gli occhi di tutti.

La realtà, invece, è indipendente, autonoma, non ha bisogno di “comunicati ufficiali” che ne confermino l’esistenza.

Ciò che è reale esiste comunque, a prescindere da tutto e da tutti.

Tanti mezzi di comunicazione ma poca comunicazione.

1 Ott

Lo scorso mese si è svolta a Camogli, deliziosa località della riviera ligure di levante, la prima edizione del festival della comunicazione, primo evento del genere organizzato in Italia.

Il successo di questa iniziativa, in termini di numero di presenze ai vari incontri, conferma quanto interesse il tema della comunicazione sia in grado di suscitare, quanto grande, diffuso, sia il bisogno delle persone di “ascoltare”.

Ma siamo sicuri che quando si parla di comunicazione s’intenda, da parte di tutti, la stessa cosa, che cioè tutti quanti attribuiscano alla parola “comunicazione” lo stesso significato?

In merito, ho molti, e seri, dubbi.

In uno dei numerosi incontri del festival di Camogli, Umberto Eco ha ricordato a questo proposito (citando Sant’Agostino) che comunicare significa attivare nella mente di qualcuno l’idea che c’era nella nostra mente.

Comunicare, quindi, non vuol dire, come banalmente si crede, stabilire un contatto con un altro, e basta, ma produrre, nella mente del nostro interlocutore, un preciso risultato: attivare, in quella, l’idea che c’era nella nostra mente.

Comunicare non indica pertanto “compiere un’azione” ma “raggiungere un obiettivo”, “ottenere un risultato”.

E la differenza non è cosa di poco conto!

Il mezzo (quello col quale si comunica) non va mai confuso col fine (quello che si vuole raggiungere tramite quel mezzo).

Al di là del mio profondo scetticismo sul fatto che possa realizzarsi, se non in casi assolutamente eccezionali, quel che diceva Sant’Agostino, c’è una domanda che, quando si parla di comunicazione, non viene mai presa in considerazione, domanda che considero non solo importante, ma essenziale, e cioè: ammesso e non concesso (come direbbe Totò) che la comunicazione riesca ad attivare nella mente di chi viene raggiunto da un messaggio (“comunicare” significa “trasmettere”) l’idea che c’era nella mente di chi quel messaggio l’ha inviato, cosa fanno gli “ascoltatori”, dopo, di quello che hanno ascoltato?

Cosa c’è dopo l’ascolto?

Che uso si fa, per esempio, di ciò di cui si viene a conoscenza nei casi in cui ciò che si comunica è un’informazione?

E, ripeto, sempre che si riesca nell’impresa di riuscire a superare l’ostacolo dell’incomunicabilità (tema al centro di tanti film di Michelangelo Antonioni).

Comunicare, allo scopo di entrare in contatto con altri (per cos’altro, se no?), ha senso solo se si accetta il fatto che, a fronte del contatto così creato, i “messaggi” veicolati producano un effetto nella mente del destinatario.

Che senso ha voler comunicare se poi si vuole restare esattamente come si era prima?

Nessuno.

Eppure si continuano a costruire vie di comunicazione, e mezzi per “trasportare” messaggi, senza però curarsi di quello al quale tutto questo dovrebbe servire: far circolare idee.

Proprio quelle che mancano.

Si mettono in comunicazione persone che non hanno nulla da dire, nulla da comunicare; è come costruire autostrade, ponti, e farli percorrere da mezzi (camion, auto) che non contengono nulla, che non trasportano nulla.

Così come accade in tante altre circostanze, si parla di comunicazione in mancanza dei necessari presupposti.

O perché i messaggi, vuoi per via del loro contenuto (spesso assente), vuoi per come vengono trasmessi, risultano incapaci di attivare le menti dei destinatari o perché le menti dei destinatari risultano incapaci di reagire secondo le aspettative di chi invia i messaggi.

Il risultato è quello di avere molto rumore e poco segnale.

Molto rumore per nulla, direbbe Shakespeare.