Il 23 maggio di vent’anni fa veniva assassinato Giovanni Falcone, e dopo quasi due mesi la stessa sorte sarebbe toccata al suo fraterno amico Paolo Borsellino.
Si è trattato, in entrambi i casi, di azioni di vera e propria guerra militare, condotte con modalità che la mafia aveva già usato a Palermo nove anni prima (il 29 luglio 1983), quando, per eliminare il Consigliere Istruttore Rocco Chinnici (il magistrato al quale si deve l’idea del pool antimafia), non esitò a trasformare la città del Monte Pellegrino in Beirut.
Troppo grandi sono il dolore, la rabbia, la tristezza, il senso di vuoto, d’incredulità, di smarrimento che ho provato allora e che continuo a provare per queste morti e ancora oggi, nonostante il tempo trascorso, ho un grande pudore a parlarne.
Quello che qui voglio dire è che poche storie come quella del pool antimafia di Palermo testimoniano il fatto che è sempre stato un numero limitato di persone a fare le cose che hanno dato dignità a questo Paese.
Chi la storia italiana la conosce per davvero sa infatti che quello che di veramente importante è stato fatto dalla Magistratura di questo Paese in 150 anni per cercare di contrastare i grandi poteri criminali è sempre stato il risultato dell’impegno di singoli magistrati, più che della Magistratura nel suo insieme.
Sa anche che l’errore capitale che le istituzioni italiane hanno sempre commesso (e che ancora oggi continuano a commettere) è quello di ritenere il fenomeno mafioso un fenomeno che possa essere affrontato esclusivamente per via giudiziaria.
Il dato che bisognerebbe sempre tenere bene a mente è che quei magistrati che, animati da un alto senso dello Stato, hanno cercato di affermare la giustizia, non solo non hanno mai trovato dalla loro parte, a loro convinto supporto, compatte, le altre istituzioni, ma che anzi proprio da queste hanno visto arrivare le più amare delusioni.
D’altra parte, com’è noto, l’affermazione della giustizia non è mai stata un vero obiettivo dei governi italiani.
Una delle più recenti conferme in proposito viene dalla mancata ratifica da parte del nostro Paese (dopo ben 13 anni dalla sua sottoscrizione!) della Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione, recante disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione.
La vuota retorica con la quale questo Paese ricorda uomini come Falcone diventa ancora più insopportabile quando fa ricorso a termini quali il “sacrificio”.
Quello che hanno fatto uomini come Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino non lo hanno fatto per un malinteso senso del “sacrificio”.
Quello che questi uomini hanno fatto lo hanno fatto perché sentivano di doverlo fare, perché avevano un alto senso morale, perché avevano un’alta idea dello Stato (lavoravano per un’idea, per quello che ritenevano dovesse essere un vero Stato, per qualcosa cioè che in realtà manca agli italiani, che forse formano un popolo, ma certo non uno Stato), perché avevano un alto senso della giustizia, proprio quella giustizia di cui soprattutto i siciliani hanno da sempre una gran fame, quella giustizia che, in 150 anni, non hanno mai visto affermata dallo Stato italiano.
A proposito della fame di giustizia dei siciliani, assolutamente emblematico è quello che disse Gaetano Badalamenti, uno degli ultimi classici padrini mafiosi, nel corso della sua intervista televisiva a Ennio Remondino.
Alla domanda sul perché del potere della mafia, sul perché tante persone si rivolgevano a lui, il boss di Cinisi rispose dicendo che gran parte delle richieste che riceveva provenivano da persone che si rivolgevano a lui per avere giustizia.
Nella sua ultima intervista, rilasciata pochi giorni prima di essere assassinato dalla mafia, Carlo Alberto Dalla Chiesa disse a Giorgio Bocca: “Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini, non sono altro che i loro elementari diritti”.
A proposito poi dell’isolamento in cui fu lasciato (nell’indifferenza generale), Falcone disse: “si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande”.
Per lui giocarono entrambi i fattori.
Il dato però sul quale si tende spesso a sorvolare con una certa disinvoltura, in questo Paese dominato dalla retorica, dalle chiacchiere, dalle manifestazioni esteriori, è che ad isolare Falcone, prima ancora della cosiddetta “società civile”, sono state le istituzioni dello Stato italiano, e più di tutte la Magistratura, vale a dire proprio l’organismo dello Stato nel quale Falcone lavorava.
I suoi principali nemici Falcone li ha avuti tra i suoi colleghi, anche tra quelli presenti al suo funerale.
Sono stati dei magistrati che lo hanno isolato, sono stati ancora dei magistrati che gli hanno impedito di guidare l’Ufficio Istruzione di Palermo dopo Antonino Caponnetto, sono stati sempre dei magistrati che lo hanno insultato, anche da morto.
Ma quali sono stati i veri motivi di questa “messa all’angolo” da parte dei suoi “colleghi”?
Sono convinto che il motivo principale, quello più profondo, più vero, quello che nessuno ammetterà mai, vada individuato in un sentimento fra i più forti che esistano nell’animo umano: l’invidia.
In questo Paese quello che proprio non si perdona è di avere successo, di vedere qualcun altro ottenere risultati che nessuno è mai riuscito ad ottenere; credo ci sia questo alla base del mancato riconoscimento del merito alle persone che se lo meritano.
Falcone diceva anche che “in Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
Ma quel termine “riuscito” proprio non mi convince, soprattutto se penso a come è stato assassinato Paolo Borsellino: come si fa infatti ad accettare il fatto che nessun organo dello Stato abbia pensato di “bonificare” la via D’Amelio, soprattutto il tratto di strada davanti all’ingresso del palazzo dove abitava la mamma del magistrato?
Falcone avrebbe dovuto dire “che lo Stato non ha protetto”, se non proprio “non ha voluto proteggere”.
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