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Perché a Palermo qualunque attività è destinata a non durare a lungo

2 Giu

Sul lato ovest della via Ruggero Settimo di Palermo fino a poco tempo fa c’era un luogo-simbolo della città: il bar Pinguino (a proposito, Settimo è un cognome e non, come mi è capitato di leggere, anche in pubblicazioni “serie”, un aggettivo numerale ordinale).

Ho scritto “c’era” perché nei giorni scorsi anche questo locale ha cessato di vivere; anche lui è entrato a far parte del già ricco album dei ricordi della Palermo di un tempo ormai perduto.

Caratteristica di questo storico locale era “l’autista”, una particolare bibita digestiva alla quale si ricorreva per trovare un efficace rimedio contro l’acidità di stomaco, condizione abbastanza frequente con la cucina palermitana, particolarmente “pesante”.

Quella che, subito dopo che il barista aveva versato nel bicchiere la punta di un cucchiaino di bicarbonato, avveniva nello stomaco di chi beveva “un autista”, era una violenta reazione chimica, così rapida che quasi sempre il “paziente” non riusciva ad uscire dal locale prima di “emettere” il prodotto dell’esplosione che quella bevanda aveva innescato.

Il nome “autista” deriva dal fatto che questa bibita-medicina fu messa a punto, tanti anni fa, proprio per dar sollievo ad un autista che, dopo aver mangiato “pesante”, entrava nel bar Pinguino per chiedere un aiuto per digerire.

Entrava in quel bar come se entrasse in una farmacia.

Si racconta che un barman, dopo vari tentativi, riuscì finalmente a mettere a punto la giusta ricetta medica, un vero e proprio preparato galenico.

Da quel giorno quella bibita si chiamò, per tutti, “autista”.

Dopo questa chiusura, anche del Pinguino, d’ora in poi, si parlerà soltanto al passato, secondo un’usanza molto diffusa fra i siciliani.

Quello che più mi ha colpito, quando giorni fa ho letto della fine di questo bar, è che questa ha seguito di poco più di un mese quella di un altro dei luoghi-simbolo della città che fu: il bar Mazzara, quello dove Tomasi di Lampedusa scrisse diverse pagine del suo Gattopardo.

Pensando a quante chiusure di locali storici sono avvenute a Palermo negli ultimi tempi e a come queste si vadano facendo sempre più frequenti, si ha come l’impressione che Palermo stia precipitando, che stia franando (e non solo in senso metaforico), che stia cambiando sempre più velocemente pelle, che si stia trasfigurando.

Non voglio dire che il cambiamento che, ormai da parecchi anni, sta interessando la città sia in peggio (ognuno lo giudichi come vuole, secondo i propri parametri, secondo le proprie priorità), voglio solo dire che quella che è in atto, visibile agli occhi di tutti, non è una cosa di poco conto, ma una vera e propria trasformazione irreversibile; sta accadendo, a Palermo, quello che a volte accade in seguito ad una violenta eruzione vulcanica: il paesaggio cambia, si formano nuove isole, ne scompaiono altre, ecc.

A proposito dei motivi all’origine della chiusura del Pinguino, ho letto che in tanti hanno chiamato in causa (come nel caso di altre) la crisi economica, in particolare quella di questi ultimi anni.

A me sembra invece che, più che ad un fatto contingente (penso a tutte le attività cessate a Palermo a partire dagli anni settanta, in periodi in cui non c’erano certo crisi alle quali potersi appellare), questa chiusura, così come quella del bar Mazzara e di tante altre attività, sia collegata al fatto che il capoluogo siciliano è un luogo non adatto per attività imprenditoriali e che le ultime chiusure ne siano un’ulteriore conferma.

Penso che se da un lato si sia rivelata terreno adatto per la pomelia, dall’altro Palermo abbia dimostrato di non esserlo affatto per l’imprenditoria.

Non si può non constatare come molte attività, anche fra quelle che, pur tra mille difficoltà, sono riuscite a decollare (e gli esempi, nella storia della città, non mancano di certo), non abbiano poi però trovato attorno un terreno adatto nel quale poter mettere radici profonde, necessarie per poter durare a lungo.

Ed è proprio questa incapacità/impossibilità di durare nel tempo, questa mancanza di continuità, l’elemento che, secondo me, caratterizza molte attività imprenditoriali palermitane (e non solo).

Quante sono, per esempio, le attività avviate da imprenditori palermitani negli ultimi cento anni ad essere oggi ancora in vita?

Quante quelle che sono sopravvissute alla scomparsa di chi le aveva avviate?

Tanti, troppi, sono gli esempi di attività, anche importanti, che non hanno retto al tempo (a volte sono durate soltanto il tempo di una generazione), perché non si colga in questo il segno di qualcosa di non contingente, ma di permanente.

Il mio pensiero non si ferma però di fronte all’incapacità di gestire in modo professionale un’attività, alla mancanza di libera iniziativa, alla sempre più diffusa improvvisazione, alla tendenza quasi naturale a dipendere dalla sfera pubblica, e quindi dalla politica, tutti aspetti che pure sono evidenti e che sicuramente contribuiscono a questa mancanza di capacità di durare a lungo.

Penso piuttosto a qualcosa di più profondo, di più radicato nel modo col quale viene vissuta la vita in Sicilia, e a Palermo in particolare.

A qualcosa che, come una maledizione divina, sembra condannare qualunque attività nata a Palermo a non durare a lungo; è come se la mitica Lachesi avesse stabilito che ad ogni iniziativa nata all’ombra di Monte Pellegrino dovesse toccare poco filo della vita.

Mettendo però da parte il mito e chiamando invece in causa i fatti concreti, quelli con i quali bisogna fare i conti, penso che gli avvenimenti che hanno segnato la storia della loro terra abbiano introdotto nell’animo dei siciliani, come se si trattasse di un virus, un senso di sfiducia nel futuro, nel progresso, nella storia, nella possibilità dell’uomo d’incidere nella vita, sua e di chi gli sta intorno, per migliorarne le condizioni.

Il risultato di questa inoculazione è che, col tempo, i siciliani hanno perso il senso stesso del futuro, diventato ormai un concetto estraneo, un qualcosa che nessuno di loro considera, a cui nessuno crede.

Pur tenendo presente quanto sia pericoloso (oltre che sbagliato) generalizzare, penso però che almeno su alcune cose (poche) si possa convenire; come, per esempio, sul fatto che nel palermitano sia ben radicata (questa sì che ha attecchito, come la pomelia) la tendenza a vivere con la testa rivolta all’indietro, a magnificare il tempo che fu (reso ancora più bello dalla sua lontananza), a non considerare il tempo di là da venire.

Non è forse vero che (certamente non per caso) il dialetto siciliano è privo del tempo futuro?

E non è forse vero che le parole servono a descrivere qualcosa che esiste?

E allora, a che serve una parola se il concetto che questa dovrebbe esprimere, descrivere (come nel caso del futuro per i siciliani), non esiste?