Nella seconda metà di questo mese, in coincidenza del 23, data che da 28 anni è entrata nel lungo elenco delle date-simbolo della retorica nazionale, si è tornati a parlare di Mafia.
La cosa che trovo incredibile è che ancora oggi, dopo quasi 160 anni dal suo ingresso nel vocabolario italiano (il debutto ufficiale risale al 1863), questa parola, una delle creazioni siciliane più famose, esportata in tutto il mondo, continui ad essere usata in maniera superficiale, generica.
Sempre più spesso si parla di mafia per indicare cose che nulla hanno a che vedere con la cosa che quel nome indica.
Ma soprattutto va tenuto conto del fatto che in quel 1863, anno in cui venne rappresentata I mafiusi di la Vicaria, il fenomeno che in quell’opera teatrale dialettale veniva, per la prima volta, descritto era già da tempo presente in Sicilia.
I nomi delle cose nascono per designare cose che già esistono.
Ecco cosa scrisse, il 3 agosto 1838, a Trapani, Pietro Calà Ulloa, Procuratore Generale del Regno delle Due Sicilie, per informare il Re Ferdinando II sullo stato economico e politico della Sicilia:
Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolò è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti. Molti alti funzionari li coprivan di un’egida impenetrabile.
In quel rapporto, pur non comparendo mai la parola mafia, si parlava di sette, gruppi di persone che avevano tutte le caratteristiche delle cosche mafiose.
Le cose esistono indipendentemente dal fatto che esista un nome che le indichi!
La forza di gravità esisteva anche prima che la famosa mela colpisse in testa Newton!
Mafia è una parola che spinge tanti a parlarne, soprattutto chi non sa di cosa si tratta (ma questo non succede solo con questa parola).
Quelli che vogliono far capire di aver letto qualcosa sull’argomento, usano anche il termine Cosa Nostra, espressione usata per la prima volta nel mese di ottobre del 1963, davanti ad una commissione del Congresso americano sulla criminalità organizzata, da Joe Valachi.
A proposito delle dichiarazioni rese in quell’occasione da Joe Valachi, il primo mafioso che scelse di collaborare con la giustizia, Robert Kennedy, allora a capo del Dipartimento di Giustizia del Governo americano, dichiarò: “Le rivelazioni di Joseph Valachi ci hanno aiutato, come mai in precedenza, a capire come funzionano le operazioni della mafia… senza escludere quelle riguardanti la corruzione politica”.
Vale la pena di notare come le parole di Robert Kennedy ricordino quelle usate da Giovanni Falcone a proposito di Tommaso Buscetta.
Vale però anche la pena di ricordare che Joe Valachi e Tommaso Buscetta non furono i primi mafiosi che decisero di collaborare con la giustizia.
Già nella seconda metà dell’800, infatti, alcuni esponenti mafiosi siciliani avevano deciso di collaborare con le autorità inquirenti.
Anche allora la collaborazione con la giustizia fu considerata, da parte dei mafiosi collaboranti, uno strumento utile per colpire gli avversari.
Ed è proprio agli inizi dello Stato unitario che risalgono i primi rapporti tra capi mafia e importanti esponenti politici, è in quegli anni che compaiono i primi esempi di quell’intreccio tra delinquenza mafiosa e autorità pubbliche di cui si parla ancora oggi.
A proposito di questo intreccio, che ha caratterizzato lo Stato italiano fin dai suoi primi anni di vita, vale la pena di ricordare le parole che Gaspare Pisciotta urlò nell’aula della Corte d’Assise di Viterbo, dopo la lettura della sentenza del processo sulla strage di Portella della Ginestra: “siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.
Quanto fa ridere che si parli di trattativa Stato-Mafia solo con riferimento alla primavera-estate del 1992!
Il fenomeno dei mafiosi collaboranti si ripetè negli anni trenta del ‘900: anche allora alcuni siciliani, esponenti dell’organizzazione criminale, decisero di collaborare con le autorità inquirenti.
Con la loro collaborazione quei personaggi rivelarono dettagliate informazioni sulla struttura interna dell’organizzazione mafiosa, così come avrebbe fatto, mezzo secolo dopo, Tommaso Buscetta con Giovanni Falcone.
Inoltre, fu proprio negli anni ‘30 del ‘900 che comparve, per la prima volta, il termine pentito, e la cosa che colpisce è che ad usarlo fu proprio un mafioso.
Ma veniamo adesso a quello che è uno dei principali elementi all’origine del potere della Mafia, forse il più importante di tutti: i suoi legami, le sue relazioni col mondo esterno all’organizzazione criminale.
Fu proprio con riferimento a questo aspetto centrale del fenomeno Mafia che Giovanni Falcone, da profondo conoscitore del fenomeno qual era, avvertì la necessità di far capire che l’azione dello Stato non si dovesse limitare al solo mondo interno all’organizzazione criminale, ma che dovesse andare oltre, investendo anche il mondo esterno a questa, ben consapevole della necessità, vitale, dell’organizzazione criminale di entrare in relazione col mondo esterno.
Una delle principali caratteristiche della Mafia, quella che ritengo sia la più importante, è proprio quella di vivere di relazioni.
Sta infatti nella convergenza di interessi con l’organizzazione criminale una delle principali cause del potere mafioso.
Ed è proprio questa convergenza d’interessi che ostacola la repressione di quel potere.
Da questa necessità nasce il ricorso al cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa, reato che, per essere riconosciuto tale, presuppone l’esistenza di un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti dell’associazione criminale.
Da un punto di vista strettamente penale, va considerato il fatto che, pur non esistendo nel codice italiano una norma specifica per il concorso esterno in associazione mafiosa, esistono comunque l’art. 110, che parla espressamente di concorso in reato e l’art. 416-bis, che prevede il reato di associazione mafiosa.
Vale la pena di sottolineare il fatto che in Italia l’associazione mafiosa è diventata reato solo il 13 settembre del 1982, con l’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre; fino a quella data il reato che poteva essere contestato ad un mafioso era semplicemente quello di associazione per delinquere (Pio La Torre, l’ideatore del reato di associazione mafiosa, fu ucciso dalla Mafia il 30 aprile 1982).
L’estensione del fenomeno non si limita però all’ambito penale, ed è in questa limitazione che io vedo uno dei più gravi errori commessi da sempre da parte di chi si occupa di Mafia.
Certamente un principe socio in affari di un mafioso non è tecnicamente definibile mafioso, così come non lo è un barone che affida ad un mafioso la guardianìa di un suo podere.
Allo stesso modo non è definibile mafioso un medico che fa nascere in una clinica privata i figli di un mafioso.
Nessuno di questi esponenti del mondo esterno all’organizzazione criminale è un mafioso, né uno che fornisce un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti dell’associazione criminale.
Eppure, senza questo genere di appoggio esterno, non configurabile come reato, la Mafia non avrebbe il potere che ha.
Come tante volte ricordato, obiettivo del mafioso è l’arricchimento personale, l’accumulo di denaro.
Secondo le parole usate da Leonardo Sciascia, la mafia è un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato.
Eppure il potere del mafioso non è solo quello dei soldi, non si esaurisce con un illecito arricchimento.
Il potere al quale il mafioso aspira va oltre quello che deriva dal denaro.
E che cos’è questo potere, in che cosa consiste?
Nella consapevolezza di disporre di un potere riconosciuto come tale, di essere legittimato nel ruolo ricoperto nella comunità.
E come sarebbe possibile il raggiungimento di questo potere senza la complicità di gente che non appartiene all’organizzazione criminale chiamata Cosa Nostra?
Dopo essere stato arrestato (il 20 febbraio 1986), Michele Greco, il capo mafia soprannominato il papa, fino all’inizio del 1982 considerato solo un ricco agricoltore dalle amicizie influenti, si mostrò meravigliato di essere finito dietro le sbarre.
Non si capacitava di essere finito dietro le sbarre, proprio lui che nella sua tenuta della Favarella (dall’arabo fawara, sorgente d’acqua), alle porte di Palermo, in quella zona che fu la Conca d’Oro, organizzava favolose battute di caccia, alle quali partecipavano Procuratori della Repubblica, aristocratici, politici, imprenditori.
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