Com’é possibile che nel mondo esistano tante creature venute male?

29 Mar

L’altra sera, seguendo la “ghigliottina”, il gioco finale del programma di Rai 1 “L’Eredità”, mi è tornata in mente la puntata in cui la parola misteriosa era “soffio”. La cinquina proposta al concorrente risultato campione di quella puntata comprendeva la parola “divino“. Quel legame tra “soffio” e “divino” mi aveva fatto venire in mente una vecchia poesia palermitana, nella quale viene “spiegato” perché, tra le creature di Dio, ve ne possano essere di quelle “venute male”.

Come si sa, secondo il mito della creazione dell’Uomo, Dio creò Adamo soffiando nelle narici di quella sua creatura fatta di argilla. Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. (Genesi 2,7).

La vita è quindi un soffio, un alito (“anima” è collegata alla respirazione, e quindi alla vita: e infatti viene dal greco ἄνεμος, “vento”). Non a caso in palermitano per dire “anima mia, vita mia” si dice ciatu miu. 

La poesia palermitana è questa: Ciatannu ‘a crita Ddiu nni detti ‘a vita// Ma pi’ ttia, strunzu, comu potti fari?// O chi cci misi mmerda ‘nveci ‘i crita// o chi cci piritiò ‘nveci ‘i ciatari. Tradotto: Soffiando sulla creta Dio ci ha dato la vita/Ma per te, stronzo, come ha potuto fare?/O ha usato merda anziché creta/o ha emesso una pernacchia anziché un soffio.

Insomma, all’origine delle creature venute male c’è o un problema di materia prima o un problema di modalità di esecuzione dell’opera.

Gli obiettivi devono essere sfidanti, ma prima di tutto raggiungibili

7 Feb

Un democratico serio, adulto, razionale, è chi, una volta al potere, guida la sua comunità verso il raggiungimento di obiettivi propri di ciò che si intende per bene comune, quali l’istruzione, la sanità, la sicurezza.

Un demagogo è invece chi, molto più banalmente, si limita a seguire i desideri delle masse ignoranti.

Il sistema democratico, caratterizzato com’è dalla ricerca del consenso popolare, è naturalmente soggetto a trasformare chi è democratico in un demagogo.

Un democratico serio, adulto, razionale, nel proporre alla sua comunità obiettivi desiderabili, non si lascia influenzare dal fatto che il loro raggiungimento risulti difficile, faticoso. Sa che, però, non deve risultare impossibile.

Obiettivi sfidanti sì, ma non impossibili da raggiungere.

Un democratico serio, adulto, razionale, sa che non porsi la questione della raggiungibilità degli obiettivi che propone significa restare al livello dei pii desideri. E sa che questo lo renderebbe ridicolo.

Ma soprattutto, un democratico serio, adulto, razionale, sa che, se si desidera raggiungere certi obiettivi, allora occorre prevedere le misure necessarie per raggiungerli.

Analogie tra ciò che accadeva a Palermo negli anni ottanta del novecento e ciò che accade oggi in Ucraina.

20 Mar

Una delle affermazioni che spesso si sentono in giro è che la Storia si ripete; in alcuni casi cambiando alcuni dettagli, ma nella sostanza riproponendo soliti schemi.

A tal proposito, io credo che al fondo ci sia la immutabilità dell’essere umano, il suo riproporre antichi comportamenti, antichi schemi mentali.

L’essere umano, il suo animo, è sempre lo stesso.

Questa mia tesi trova conferme in quello che sta accadendo in Ucraina da quasi un mese.

Leggendo, e soprattutto ascoltando, ho notato alcune significative analogie tra quello che sta accadendo in Italia a proposito dell’aggressione scatenata da Putin e quello che accadde a Palermo negli anni ottanta del secolo scorso.

Per esempio: 

1. in tanti oggi vorrebbero che l’Ucraina si arrendesse e si sottomettesse al ricatto della Russia. Ebbene, questi italiani di oggi ricordano quelli che, ieri, non capivano perché alcuni commercianti di Palermo si ostinassero a resistere al ricatto dei mafiosi, a non sottomettersi al loro volere.

2. c’è gente che ha pensato che l’attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhia fosse opera della stessa Ucraina. Questi mi hanno fatto venire in mente quelli che, nel 1989, sostennero che l’attentato all’Addaura se lo fosse fatto lo stesso Falcone.

3. le sanzioni contro la Russia, in particolare quelle che hanno colpito gli oligarchi, hanno suscitato le proteste di chi si lamenta della perdita d’incassi per la mancanza degli acquisti da parte dei ricchi turisti russi.

Mi son venuti in mente quelli che a Palermo, negli anni ottanta del secolo scorso, si lamentavano della perdita di incassi dovuta alla confisca dei beni alle famiglie dei mafiosi. 

Ho sentito con le mie orecchie, a Palermo, diversi gestori di negozi di abbigliamento lamentarsi delle inchieste della magistratura, alle quali imputavano la colpa di aver fatto venir meno gli acquisti delle mogli dei mafiosi (gente che spendeva centinaia di migliaia di lire per un paio di stivali).

La Storia si ripete perché l’essere umano è sempre lo stesso: accanto al coraggio, alla dignità, all’amore per la giustizia, c’è sempre la miseria, la vigliaccheria, la voglia di sopraffare e di stare sempre dalla parte di chi sopraffà, ignorando le richieste d’aiuto del sopraffatto.

Superior stabat lupus, longeque inferior agnus

Siamo sempre là.

La vita è un soffio. Ma non sempre.

17 Feb

Giorni fa la parola misteriosa della “ghigliottina”, il gioco finale del programma di Rai 1 “L’Eredità”, era “soffio”.

La cinquina proposta al concorrente risultato campione di quella puntata comprendeva la parola “divino“.

Quel legame tra “soffio” e “divino” mi ha fatto venire in mente una vecchia poesia palermitana, nella quale viene “spiegato” perché, tra le creature di Dio, ve ne possano essere di quelle “venute male”.

Come si sa, secondo il mito della creazione dell’Uomo, Dio creò Adamo soffiando nelle narici di quella sua creatura fatta di argilla.

Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. (Genesi 2,7).

La vita è quindi un soffio, un alito (“anima” è collegata alla respirazione, e quindi alla vita: e infatti viene dal greco ἄνεμος, “vento”).

Non a caso in palermitano per dire “anima mia, vita mia” si dice ciatu miu. 

La poesia palermitana è questa:

Ciatannu ‘a crita Ddiu nni detti ‘a vita// Ma pi’ ttia, strunzu, comu potti fari?// O chi cci misi mmerda ‘nveci ‘i crita// o chi cci piritiò ‘nveci ‘i ciatari.

Tradotto: Soffiando sulla creta Dio ci ha dato la vita/Ma per te, stronzo, come ha potuto fare?/O ha usato merda anziché creta/o ha emesso una pernacchia anziché un soffio.

Insomma, all’origine delle creature divine venute male c’è o un problema di materia prima o un problema di modalità di esecuzione dell’opera.

A proposito della favola sulla separazione dei poteri

18 Giu

Considero “I Promessi Sposi” non solo il romanzo più importante della letteratura italiana ma anche lo strumento migliore per capire cos’è l’Italia.

Purtroppo è legato agli anni della scuola, che non sono certo quelli in cui si può capire quello che è scritto in quelle pagine.

Se la scuola consente infatti di conoscere certi autori, certi libri, è solo con l’esperienza che si acquisisce negli anni successivi che è possibile capire quello che sta scritto in quei libri. 

Rileggendo “I Promessi Sposi” (come i classici, è un libro che non si legge, ma si rilegge. E ogni sua rilettura riserva una scoperta.) si scopre che in quelle pagine si trova la chiave di lettura dell’Italia.

I segni per capire qual è la natura profonda dell’Italia sono numerosi e riguardano tanti tratti del carattere degli italiani, e quindi delle istituzioni che li rappresentano.

Uno di essi lo si trova nel capitolo quinto, nel quale è descritta stupendamente quella che costituisce una delle principali anomalie di questo Paese.

Ecco cosa scrive Alessandro Manzoni per descrivere cosa succede quando fra Cristoforo va nel palazzotto di Don Rodrigo:

A sinistra stava il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo, come s’è visto di sopra.

In faccia al podestà, in atto d’un rispetto il più puro, il più sviscerato, sedeva il nostro dottor Azzecca-garbugli. In cappa nera, e col naso più rubicondo del solito.

Il dato-chiave sta in quelle parole “ il signor podestà, quel medesimo a cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino, e a fare star a dovere don Rodrigo”.

A proposito di questo perverso intreccio che caratterizza lo Stato italiano fin dai suoi primi anni di vita, vale la pena di ricordare le parole che Gaspare Pisciotta urlò nell’aula della Corte d’Assise di Viterbo dopo la lettura della sentenza del processo sulla strage di Portella della Ginestra: “siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.

Ed ecco come si chiude “Una storia semplice”, che considero, tra le opere di Leonardo Sciascia, non solo quella in cui c’è l’essenza del suo giudizio sulle istituzioni italiane (espresso con amara ironia) e sulle reali possibilità che ci sono in Italia di giungere alla verità, e quindi alla giustizia, ma quella nel quale mi riconosco di più (quando, anni fa, ho deciso di aprire un mio blog, non a caso ho scelto di intitolarlo unastoriasemplice).

Uscì dalla città cantando. Ma ad un certo punto fermò di colpo la macchina, tornò ad incupirsi, ad angosciarsi. <<Quel prete,>> si disse <<quel prete… L’avrei riconosciuto subito, se non fosse stato vestito da prete: era il capostazione, quello che avevo creduto fosse il capostazione>>.

Pensò di tornare indietro, alla questura. Ma un momento dopo: <<E che, vado di nuovo a cacciarmi in un guaio, e più grosso ancora?>>.

Riprese cantando la strada verso casa.

Con buona pace di Montesquieu.

Ricordando Leonardo Sciascia

25 Mar

Quest’anno è il centenario della nascita di Leonardo Sciascia.

Proprio a metà di questo periodo cade l’anno della pubblicazione di uno dei suoi romanzi-chiave, “Il Contesto”.

Di questo romanzo viene solitamente ricordato il dialogo tra l’ispettore Rogas e il presidente Riches, incentrato sul tema che ha sempre appassionato Sciascia: la giustizia, o meglio, l’amministrazione della giustizia.

Al cuore del Contesto sta piuttosto la denuncia del legame tra il Partito Comunista Italiano e il potere, legame che in quegli anni stava venendo fuori in maniera sempre più evidente.

Sciascia denuncia la duplicità del PCI (quella di voler essere allo stesso tempo partito di lotta e di potere), duplicità che verrà fuori in tante altre occasioni, fino a diventare una caratteristica di quel partito.

È in quella duplicità che si manifesta la famosa doppia morale della sinistra italiana.

Il vero compromesso denunciato da Sciascia nel Contesto non è quello, storico, tra la Democrazia Cristiana e il PCI ma quello tra il PCI e il potere.

E non a caso la denuncia di quel legame costò tanto a Sciascia.

Fu proprio a partire dall’uscita del Contesto che l’atteggiamento del PCI e dei fedeli di quella chiesa nei confronti di Leonardo Sciascia cambiò nettamente.

Le eccezioni furono rare, e tra queste ci fu Emanuele Macaluso, il cui legame di amicizia con Leonardo Sciascia non venne mai meno, a differenza di tanti altri amici dello scrittore di Racalmuto (emblematico il comportamento di Renato Guttuso) che scelsero la fede nel PCI.

Quando Don Chisciotte ricorda a Sancho Panza la famosa sentenza latina amicus Plato, sed magis amica veritas, lo esorta a non dimenticare chela verità vale più dell’amicizia, che la prima, nella scala gerarchica dei valori, prevale sulla seconda.

Leonardo Sciascia scelse sempre la prima.

A proposito dell’assunzione gratuita di condizioni che pongono vincoli inesistenti

23 Ago

Parlare di vincoli significa parlare di qualcosa che limita le possibilità che avvenga qualcosa.

In fisica, per esempio, per vincolo si intende qualsiasi limitazione alla libertà di movimento di un corpo.

Nei comportamenti umani esistono svariati tipi di vincoli, originati da cause diverse.

Tra quelli più forti, più subdoli, ce ne sono alcuni particolarmente vincolanti: sono quelli che ci vengono imposti dalla nostra mente.

Si tratta di vincoli che pongono limitazioni alla libertà di movimento della nostra mente, quella stessa mente che li crea.

Prendiamo per esempio il seguente quesito:

Qual è il minor numero di pesi che possono essere usati su una bilancia per pesare oggetti il cui peso può essere qualsiasi numero intero di chilogrammi da 1 a 40”?

Le persone alle quali viene posta questa domanda assumono, istintivamente, una condizione che in realtà non esiste, se non nella loro mente.

Qual è questa condizione, qual è questo vincolo che loro stesse si danno e che impedisce loro di trovare la soluzione? 

Questo vincolo auto-imposto consiste nell’assumere che i pesi possano essere posti solo su uno dei due piatti della bilancia, quello non occupato dall’oggetto da pesare.

Questo vincolo porta a ritenere che il minor numero di pesi di cui ci sia bisogno è 6 : 1, 2, 4, 8, 16, 32.

In questo modo, ponendo su un piatto della bilancia uno o più dei 6 pesi, è infatti possibile bilanciare esattamente qualsiasi oggetto che pesi da 1 a 40 kg.

Per esempio, un oggetto che pesi 3 kg sarà bilanciato ponendo sull’altro piatto della bilancia i pesi 1 e 2, un oggetto che pesi 5 kg sarà bilanciato dai pesi 1 e 4, quello da 40 sarà bilanciato dai pesi 8 e 32.

Vediamo adesso cosa succede se non assumiamo la condizione che ci impone di porre i pesi solo su un piatto della bilancia.

Senza quel vincolo, che in realtà non esiste, si scopre che il minor numero di pesi è inferiore a 6.

Si trova infatti che per poter pesare qualsiasi oggetto il cui peso va da 1 a 40 kg bastano 4 pesi: 1, 3, 9, 27

Sistemando i pesi su entrambi i piatti della bilancia, ponendone quindi anche accanto all’oggetto da pesare, è possibile ottenere qualsiasi peso da 1 a 40 kg.

Senza quella catena mentale un oggetto che pesi 2 kg sarà pesato ponendo il peso da 1 kg accanto all’oggetto da pesare e il peso da 3 kg sull’altro piatto della bilancia.

Se l’oggetto da pesare è da 5 kg, su un piatto si porranno, accanto all’oggetto da pesare, i pesi 1 e 3 e sull’altro piatto il peso da 9 kg.

Se l’oggetto da pesare è da 20 kg, su un piatto si porranno, accanto all’oggetto da pesare, i pesi 1 e 9 e sull’altro piatto i pesi 3 e 27.

Un analogo caso di auto limitazione imposta dalla mente umana è quello del famoso problema dei 9 punti.

Quando ad una persona viene chiesto di unire con 4 tratti di matita, da tracciare senza mai staccare la matita dal foglio, quei nove punti, accade un fatto tanto naturale quanto privo di fondamento: nella grande maggioranza dei casi la persona si dà infatti un vincolo che in realtà non esiste!

La sua mente le impone di pensare che per risolvere il problema non si debba uscire dal quadrato che la sua mente stessa ha pensato che esistesse.

In realtà non esiste alcun quadrato, esistono solo nove punti.

E l’unico modo di risolvere il problema è quello di uscire da quel quadrato immaginario, creato solo dalla mente.

Le conseguenze derivanti da assunzioni preconcette sono mirabilmente descritte in quello che è considerato il primo racconto poliziesco della storia della letteratura: “I delitti della Rue Morgue”, di Edgar Allan Poe.

In quel caso la polizia non riusciva ad andare avanti nell’indagine sulla morte di due donne, e questo perché aveva assunto che l’assassino fosse, non potesse che essere, un essere umano.

Il racconto di Poe mette in evidenza l’impossibilità di risolvere un problema a causa delle limitazioni che l’essere umano si autoimpone.

L’archetipo dell’ispettore, Auguste Dupin, riesce a trovare la soluzione, e questo perché Dupin non s’impone alcun limite, non si vincola a pensare che ad uccidere le due donne debba essere stato, per forza, un essere umano.

I criteri del metodo d’indagine di Dupin furono ripresi da Arthur Conan Doyle.

Non a caso Sherlock Holmes affermava che “Eliminati tutti i fattori che, alla luce dei fatti accessibili, sono impossibili, ciò che rimane, anche se improbabile, deve essere la verità”.

A proposito di Mafia e del potere di cui gode.

30 Mag

Nella seconda metà di questo mese, in coincidenza del 23, data che da 28 anni è entrata nel lungo elenco delle date-simbolo della retorica nazionale, si è tornati a parlare di Mafia.

La cosa che trovo incredibile è che ancora oggi, dopo quasi 160 anni dal suo ingresso nel vocabolario italiano (il debutto ufficiale risale al 1863), questa parola, una delle creazioni siciliane più famose, esportata in tutto il mondo, continui ad essere usata in maniera superficiale, generica.

Sempre più spesso si parla di mafia per indicare cose che nulla hanno a che vedere con la cosa che quel nome indica.

Ma soprattutto va tenuto conto del fatto che in quel 1863, anno in cui venne rappresentata I mafiusi di la Vicaria, il fenomeno che in quell’opera teatrale dialettale veniva, per la prima volta, descritto era già da tempo presente in Sicilia.

I nomi delle cose nascono per designare cose che già esistono.

Ecco cosa scrisse, il 3 agosto 1838, a Trapani, Pietro Calà Ulloa, Procuratore Generale del Regno delle Due Sicilie, per informare il Re Ferdinando II sullo stato economico e politico della Sicilia:

Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi. Vi ha in molti paesi delle unioni o fratellanze, specie di sette, che dicono partiti, senza colore o scopo politico, senza riunione, senza altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni ora di far esonerare un funzionario, ora di difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un innocente. Sono tante specie di piccoli Governi nel Governo. La mancanza della forza pubblica ha fatto moltiplicare il numero dei reati! Il popolò è venuto a tacita convenzione coi rei. Così come accadono i furti escono i mediatori ad offrire transazione pel ricuperamento degli oggetti involati. Il numero di tali accordi è infinito. Molti possidenti perciò han creduto meglio divenire oppressori che oppressi, e s’inscrivon nei partiti. Molti alti funzionari li coprivan di un’egida impenetrabile.

In quel rapporto, pur non comparendo mai la parola mafia, si parlava di sette, gruppi di persone che avevano tutte le caratteristiche delle cosche mafiose.

Le cose esistono indipendentemente dal fatto che esista un nome che le indichi!

La forza di gravità esisteva anche prima che la famosa mela colpisse in testa Newton!

Mafia è una parola che spinge tanti a parlarne, soprattutto chi non sa di cosa si tratta (ma questo non succede solo con questa parola).

Quelli che vogliono far capire di aver letto qualcosa sull’argomento, usano anche il termine Cosa Nostra, espressione usata per la prima volta nel mese di ottobre del 1963, davanti ad una commissione del Congresso americano sulla criminalità organizzata, da Joe Valachi.

A proposito delle dichiarazioni rese in quell’occasione da Joe Valachi, il primo mafioso che scelse di collaborare con la giustizia, Robert Kennedy, allora a capo del Dipartimento di Giustizia del Governo americano, dichiarò: “Le rivelazioni di Joseph Valachi ci hanno aiutato, come mai in precedenza, a capire come funzionano le operazioni della mafia… senza escludere quelle riguardanti la corruzione politica”.

Vale la pena di notare come le parole di Robert Kennedy ricordino quelle usate da Giovanni Falcone a proposito di Tommaso Buscetta.

Vale però anche la pena di ricordare che Joe Valachi e Tommaso Buscetta non furono i primi mafiosi che decisero di collaborare con la giustizia.

Già nella seconda metà dell’800, infatti, alcuni esponenti mafiosi siciliani avevano deciso di collaborare con le autorità inquirenti.

Anche allora la collaborazione con la giustizia fu considerata, da parte dei mafiosi collaboranti, uno strumento utile per colpire gli avversari.

Ed è proprio agli inizi dello Stato unitario che risalgono i primi rapporti tra capi mafia e importanti esponenti politici, è in quegli anni che compaiono i primi esempi di quell’intreccio tra delinquenza mafiosa e autorità pubbliche di cui si parla ancora oggi.

A proposito di questo intreccio, che ha caratterizzato lo Stato italiano fin dai suoi primi anni di vita, vale la pena di ricordare le parole che Gaspare Pisciotta urlò nell’aula della Corte d’Assise di Viterbo, dopo la lettura della sentenza del processo sulla strage di Portella della Ginestra: “siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.

Quanto fa ridere che si parli di trattativa Stato-Mafia solo con riferimento alla primavera-estate del 1992!

Il fenomeno dei mafiosi collaboranti si ripetè negli anni trenta del ‘900: anche allora alcuni siciliani, esponenti dell’organizzazione criminale, decisero di collaborare con le autorità inquirenti.

Con la loro collaborazione quei personaggi rivelarono dettagliate informazioni sulla struttura interna dell’organizzazione mafiosa, così come avrebbe fatto, mezzo secolo dopo, Tommaso Buscetta con Giovanni Falcone.

Inoltre, fu proprio negli anni ‘30 del ‘900 che comparve, per la prima volta, il termine pentito, e la cosa che colpisce è che ad usarlo fu proprio un mafioso.

Ma veniamo adesso a quello che è uno dei principali elementi all’origine del potere della Mafia, forse il più importante di tutti: i suoi legami, le sue relazioni col mondo esterno all’organizzazione criminale.

Fu proprio con riferimento a questo aspetto centrale del fenomeno Mafia che Giovanni Falcone, da profondo conoscitore del fenomeno qual era, avvertì la necessità di far capire che l’azione dello Stato non si dovesse limitare al solo mondo interno all’organizzazione criminale, ma che dovesse andare oltre, investendo anche il mondo esterno a questa, ben consapevole della necessità, vitale, dell’organizzazione criminale di entrare in relazione col mondo esterno.

Una delle principali caratteristiche della Mafia, quella che ritengo sia la più importante, è proprio quella di vivere di relazioni.

Sta infatti nella convergenza di interessi con l’organizzazione criminale una delle principali cause del potere mafioso.

Ed è proprio questa convergenza d’interessi che ostacola la repressione di quel potere.

Da questa necessità nasce il ricorso al cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa, reato che, per essere riconosciuto tale, presuppone l’esistenza di un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti dell’associazione criminale.

Da un punto di vista strettamente penale, va considerato il fatto che, pur non esistendo nel codice italiano una norma specifica per il concorso esterno in associazione mafiosa, esistono comunque l’art. 110, che parla espressamente di concorso in reato e l’art. 416-bis, che prevede il reato di associazione mafiosa.

Vale la pena di sottolineare il fatto che in Italia l’associazione mafiosa è diventata reato solo il 13 settembre del 1982, con l’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre; fino a quella data il reato che poteva essere contestato ad un mafioso era semplicemente quello di associazione per delinquere (Pio La Torre, l’ideatore del reato di associazione mafiosa, fu ucciso dalla Mafia il 30 aprile 1982).

L’estensione del fenomeno non si limita però all’ambito penale, ed è in questa limitazione che io vedo uno dei più gravi errori commessi da sempre da parte di chi si occupa di Mafia.

Certamente un principe socio in affari di un mafioso non è tecnicamente definibile mafioso, così come non lo è un barone che affida ad un mafioso la guardianìa di un suo podere.

Allo stesso modo non è definibile mafioso un medico che fa nascere in una clinica privata i figli di un mafioso.

Nessuno di questi esponenti del mondo esterno all’organizzazione criminale è un mafioso, né uno che fornisce un contributo effettivo al perseguimento degli scopi illeciti dellassociazione criminale.

Eppure, senza questo genere di appoggio esterno, non configurabile come reato, la Mafia non avrebbe il potere che ha.

Come tante volte ricordato, obiettivo del mafioso è l’arricchimento personale, l’accumulo di denaro.

Secondo le parole usate da Leonardo Sciascia, la mafia è un’associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato.

Eppure il potere del mafioso non è solo quello dei soldi, non si esaurisce con un illecito arricchimento.

Il potere al quale il mafioso aspira va oltre quello che deriva dal denaro.

E che cos’è questo potere, in che cosa consiste?

Nella consapevolezza di disporre di un potere riconosciuto come tale, di essere legittimato nel ruolo ricoperto nella comunità.

E come sarebbe possibile il raggiungimento di questo potere senza la complicità di gente che non appartiene all’organizzazione criminale chiamata Cosa Nostra?

Dopo essere stato arrestato (il 20 febbraio 1986), Michele Greco, il capo mafia soprannominato il papa, fino all’inizio del 1982 considerato solo un ricco agricoltore dalle amicizie influenti, si mostrò meravigliato di essere finito dietro le sbarre.

Non si capacitava di essere finito dietro le sbarre, proprio lui che nella sua tenuta della Favarella (dall’arabo fawara, sorgente d’acqua), alle porte di Palermo, in quella zona che fu la Conca d’Oro, organizzava favolose battute di caccia, alle quali partecipavano Procuratori della Repubblica, aristocratici, politici, imprenditori.

Un tavolino a tre gambe sta in piedi solo se ci sono tutte e tre le gambe

23 Apr

Da giorni in Italia non si fa che parlare della app Immuni, che il Governo ha selezionato, tra 300, per raggiungere un obiettivo tanto importante quanto parziale, nella strategia di contrasto alla diffusione del virus SARS-CoV-2: il tracciamento delle persone venute in contatto con soggetti contagiati dal virus.

Fin da quando si è iniziato a parlare di un progetto tendente a tracciare gli spostamenti delle persone, per di più tenute ad indicare nella app dati personali, ci si è preoccupati non solo di essere controllati (preoccupazione ingiustificata, visto l’uso quotidiano che già da anni si fa di sistemi di pagamento elettronico e di social media) ma, soprattutto, e più sensatamente, di una invasione nella propria sfera personale e del rischio di un “commercio” dei nostri dati personali.

Se però si tiene conto delle condizioni che devono essere soddisfatte perché il sistema del quale questa app fa parte funzioni, ci si rende conto di quanto sia improbabile che questo progetto del Governo italiano possa raggiungere l’obiettivo, che, vale la pena di sottolineare, non è solo quello di tracciare gli spostamenti delle persone.

Le probabilità che anche questo vada ad aggiungersi alla ricca lista dei progetti italiani miseramente falliti non sono basse, anzi.

Due soli esempi, peraltro assai recenti: il reddito di cittadinanza e la didattica a distanza.

Quanti sono ad oggi, tra tutti quelli che hanno percepito il reddito di cittadinanza, quelli che hanno trovato un lavoro grazie al supporto dei famosi navigator?

E quante sono, in ciascuno dei quasi 8000 comuni italiani, le classi che stanno facendo didattica a distanza, misura tecnologica adottata in tempi di lockdown conseguente all’epidemia da SARS-CoV-2 ?

Torniamo alla famosa app Immuni.

Perché le probabilità che si tratti di un fallimento annunciato non sono da trascurare?

La risposta non sta tanto nell’effettiva funzionalità della app (ammesso e non concesso che ad utilizzarla sarà almeno il 60% della popolazione italiana e che non nascano problemi di funzionamento nei sistemi operativi dei telefoni esistenti in Italia) quanto nelle conseguenze che una app del genere può avere in un contesto come quello del mondo di Internet (leggasi hacker) e, soprattutto, nelle altre due delle tre gambe che devono reggere il tavolino progettato.

L’utilità della app è infatti legata all’adozione di un insieme di altre misure, di natura organizzativa e sanitaria, senza le quali Immuni, da sola,  risulterebbe inutile.

Perché il progetto di cui la app Immuni fa parte raggiunga l’obiettivo è necessario infatti che esistano le altre due T previste, il che vuol dire disporre della capacità di eseguire i test che saranno richiesti e di una efficiente rete di strutture sanitarie su tutto il territorio nazionale.

Se, per esempio, non si sarà in grado di fare i tamponi subito dopo aver individuato i contagiati, la app risulterà inutile.

Ciò che porta a considerare non trascurabili le probabilità che, anche questa volta, ci si trovi di fronte ad un progetto già fallito prima ancora di essere partito, non è tanto, e non solo, la facile previsione che questa app Immuni sarà utilizzata da meno del 60% della popolazione italiana quanto la consapevolezza dell’assenza, su tutto il territorio nazionale, di una rete di strutture sanitarie con adeguate capacità organizzative.

Ed è soprattutto questo secondo aspetto quello che dovrebbe maggiormente interessare, quello sul quale si dovrebbe puntare l’attenzione.

Ci si dovrebbe rendere conto che senza un’efficiente rete di strutture sanitarie su tutto il territorio nazionale, senza le necessarie capacità organizzative, anche nell’ipotesi di un suo uso massiccio e privo di problemi tecnici di funzionamento, la app Immuni risulterà inutile.

A cosa serve infatti Immuni se il territorio nazionale è privo di strutture sanitarie specificamente dedicate al trattamento dei soggetti individuati dal tracciamento? 

La cosa diventa poi paradossale se si considera che le criticità del sistema aumenterebbero notevolmente proprio in presenza di un uso massiccio della app!

Ma allora perché si partirà con questo progetto?

E qui veniamo al cuore del problema.

Questo progetto serve solo a far credere che al governo ci sia gente che sa come uscire dal tunnel.

Non importa che ciò non sia vero, l’importante è che tanti ci credano.

Non è forse vero che, già ormai da anni, in Italia si vive nel mondo della comunicazione, del marketing?

E cos’è che conta in questo mondo? Conta la percezione, non la realtà.

A proposito del coronavirus SARS-CoV-2

8 Apr

Attestation-de-deplacement-derogatoire

L’epidemia di questo SARS-CoV-2 ha fatto venire alla luce le incredibili complicazioni che caratterizzano la struttura amministrativa dello Stato italiano.

Una struttura piena di complicazioni inutili, fini a sé stesse, molto spesso folli, frutto di una mentalità gravemente malata (questo è, almeno, il giudizio che ne dà una persona che ha nel pensiero razionale il suo faro).

In questi giorni si è aperta una gara per individuare il colpevole, la fonte di questa mostruosa ragnatela che avvolge, immobilizzandola, la società italiana.

C’è chi attribuisce la responsabilità alla burocrazia e c’è chi invece la attribuisce al legislatore, dicendo che la burocrazia non fa che applicare le leggi.

Ecco che si ripresenta, in questa surreale partita di ping pong, la mentalità dell’on/off, quella per cui esistono solo due alternative, che si escludono a vicenda, quella per cui le possibili soluzioni dei problemi sono solo due.

In questo caso, la responsabilità è o del legislatore o dei burocrati.

Chi, ancora oggi, non cade nella trappola dell’on/off, della logica binaria, capisce che il problema non è così semplice e che la mentalità binaria non è adatta ad affrontarlo in maniera corretta.

Capisce, per esempio, che le responsabilità del legislatore non escludono quelle della burocrazia, e viceversa.

E che entrambe non ne escludono altre.

Prendiamo ad esempio il caso del modulo di autocertificazione: chi lo ha pensato, chi lo ha materialmente scritto, chi ne ha autorizzato la diffusione?

Ha senso, in questo caso, dire che si tratta di responsabilità del legislatore?

Ha senso dire che è colpa del legislatore se quel modulo è scritto in quel modo, se si è fatto ricorso a quei termini?

No, non sta certo nel legislatore la responsabilità di quel mostro.

E nemmeno nella burocrazia (tra l’altro, sia burocrazia che legislatore sono parole generiche, che non vogliono dire nulla di preciso.

Al contrario, si ha a che fare con persone specifiche, persone in carne ed ossa, persone che nessuno ha obbligato a scrivere in quel modo, ad usare quei termini.

Cos’è, per esempio, che ha impedito agli italiani di disporre di un modulo scritto come quello a disposizione dei francesi?

Cos’è che ha impedito all’amministrazione italiana di scrivere un modulo nel modo in cui è stato scritto in Francia?

E che dire delle famose mascherine? Chi ha deciso di scrivere ordinanze che obbligano ad indossarle, sapendo che non ce ne sono, quanto meno nella quantità necessaria?

Il problema più grosso e grave dell’Italia non sta nel numero abnorme di leggi, ma nella mentalità che porta a credere che i problemi si risolvano semplicemente, automaticamente, scrivendo leggi, e che ogni problema richieda una legge.

La faccenda diventa poi surreale quando si considera che lo Stato italiano non è, storicamente, in grado (per incapacità o per calcolo politico) di far applicare le leggi che promulga.

La convinzione, che affonda le proprie radici in una cultura basata sulla parola, che prescinde dai fatti, è che basti scrivere perché l’oggetto di quello scritto si materializzi da quelle parole (il potere magico delle parole, quelle che nella favola di Cenerentola trasformano una zucca in carrozza).

In questo mondo fantastico, il numero di leggi è solo la naturale conseguenza di questa mentalità.

Concludo con le parole di Cartesio, faro per i cultori del pensiero razionale, parole che trovo si applichino in maniera perfetta al caso italiano: “Spesso il gran numero delle leggi fornisce scuse ai vizi, per cui uno Stato è tanto meglio regolato quando, avendone pochissime, esse vengono rigorosamente osservate”.